domenica 18 ottobre 2009

Fine della crisi. Forse, insomma, chissà...

Federico Zamboni

ilribelle.com

I banchieri continuano a ragionare solo da

banchieri: evitato il crac dicono che il peggio

è passato. Forse per loro. Non certo per noi

Dice Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve statunitense dal 2006 e riconfermato da Obama fino al 2014 per aver “allontanato l’economia da una depressione”: «Da un punto di vista tecnico, la recessione è molto probabilmente terminata». E aggiunge: «Ho visto un certo consenso tra i previsori riguardo il fatto che siamo in ripresa, ma il punto di vista prevalente tra loro è che il ritmo della crescita nel 2010 sarà moderato». Purtroppo, però, «si avvertirà un’economia molto debole per un certo tempo in quanto molte persone sentiranno ancora che la loro sicurezza lavorativa e il loro status occupazionale non sarà quello desiderato».

Incredibilmente, queste dichiarazioni di metà settembre sono state accolte come se fossero positive. Positive non soltanto per il sistema finanziario, che era destinato al tracollo e si è salvato grazie agli sterminati finanziamenti da parte dei governi, ma anche per l’economia nel suo complesso. La menzogna sottintesa è proprio questa: che quello che va bene per le banche vada bene, o prima o dopo, anche per il resto della società. Imprese, lavoratori, cittadini.

L’altro aspetto interessante, che i grandi media si sono ben guardati dall’evidenziare, è che le parole di Bernanke riescono a essere simultaneamente vaghe, ipocrite e capziose. Espressioni come “da un punto di vista tecnico”, “un certo consenso tra i previsori”, “si avvertirà un’economia molto debole” e “molte persone sentiranno ancora che la loro sicurezza lavorativa e il loro status occupazionale non sarà quello desiderato”, sono in parte impressioni spacciate per analisi e in parte eufemismi. Eufemismi rivoltanti, bisogna aggiungere. I milioni di uomini e donne che hanno perso il posto di lavoro e non riescono, e non riusciranno, a trovarne un altro non sono “persone che sentiranno ancora eccetera eccetera”. Sono individui che hanno perso la loro fonte di reddito e, insieme ad essa, l’architrave della loro identità sociale e del loro avvenire come singoli e come membri di una famiglia serena, già costituita o di là da venire.

Non stiamo aleggiando nel mondo delicato delle sensazioni. Annaspiamo, o sprofondiamo, nel mondo concreto e doloroso, per non dire tragico, della vita reale. Che va a rotoli. Che va a puttane.

Silence, please

La verità sarebbe semplicissima, solo che è un tabù: nessuno sa con certezza che cosa accadrà nei prossimi mesi e, a maggior ragione, nei prossimi anni. Troppe variabili. Troppe incognite. Troppe esigenze contrastanti che collidono tra loro in una tensione permanente che non si può eliminare e che, per questo e per le sue potenzialità distruttive, ricorda l’attrito delle faglie tettoniche. Che ci sono anche se non si vedono. Che si muovono, pericolosamente, all’insaputa dei più.

Quello che sta accadendo davvero, vedi anche quest’ultima farsa del G20 di Pittsburgh che spaccia come massimo allarme planetario la “minaccia” atomica iraniana, è che i potentati economici e politici occidentali stanno cercando di capire come riformulare l’equazione del loro dominio. Come farcela a restarsene tranquillamente al comando anche dopo aver dimostrato di non esserne degni e, quel che forse è ancora peggio, apprestandosi a trasformare le difficoltà sociali causate dalla crisi in un peggioramento permanente delle condizioni di vita.

Il dato di fatto da cui bisognerebbe partire è che i problemi strutturali dell’economia occidentale, e in particolare di quella statunitense, sono tutt’altro che superati. Essendo appunto strutturali, a cominciare dalla carenza di liquidità, sono impossibili da rimuovere. Hanno portato al crollo dei mercati e lasceranno dietro di sé guasti enormi, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione. A meno che non si creino ulteriori bolle speculative – e vale la pena di ricordare che nella medesima conferenza stampa citata in apertura l’ineffabile Bernanke ha anche detto che il fenomeno dei derivati di Borsa «almeno nel medio termine non tornerà alle dimensioni che aveva in precedenza», dove l’espressione chiave è ovviamente “almeno nel medio termine” e prelude a un successivo recupero di questa pratica abietta e velenosa, non appena le acque si saranno calmate e la memoria del disastro si sarà attenuata quanto basta a far sì che la cosa venga accettata pacificamente – bisognerà abituarsi a vivere in una società in cui circola meno denaro. E in cui le conseguenze negative di questa diminuzione le sconta, manco a dirlo, la gente qualsiasi, non certo le oligarchie che detengono il potere finanziario.

Comunque vada a finire, la preesistente illusione di una crescita continua e illimitata – da una parte del Pil, dall’altra dei redditi e dei consumi della generalità della popolazione – dovrà essere abbandonata. Quello che gli esperti sanno benissimo è che c’è un vizio d’origine, una sorta di inganno a priori, che è stato utilizzato per decenni e decenni come leva propagandistica dell’attuale modello di produzione e consumo. Per tutto questo tempo l’Occidente ha vissuto ampiamente al di sopra dei suoi mezzi. Il problema, che ora è assai più difficile nascondere ma che per gli osservatori consapevoli non è certo una novità, è che questa “cattiva abitudine” è diventata insostenibile.

L’Occidente del nuovo millennio è come un’immensa azienda che ha perduto il privilegio del monopolio: prima poteva pagare i suoi dipendenti quanto voleva, scaricandone il costo sul prezzo finale dei suoi “prodotti”. Adesso che non gode più dell’assoluta supremazia tecnologica, economica e militare sul resto del mondo, è costretta a fare i conti con un numero crescente di Paesi che sono pronti e determinati a competere, e che sono in grado di farlo in condizioni vantaggiose. Sia sul piano produttivo, grazie a lavoratori che accettano retribuzioni e tutele normative di gran lunga inferiori, sia su quello politico, grazie a cittadini abituati a livelli di consumo e di libertà individuale incomparabilmente più bassi.

Per continuare nella stessa direzione di prima, quella che pretendeva di far coesistere lo smodato arricchimento di una minoranza e il benessere di (quasi) tutti gli altri, non ci sono abbastanza soldi. In realtà, del resto, non ci sarebbero stati neanche prima: ed è il motivo per cui sono state create tutta una serie di bolle speculative, con una “finanziarizzazione” dell’economia che di fatto ha privato il denaro, che già nasce astratto di per sé, di qualsiasi elemento oggettivo. Cioè di qualunque, residuo ancoraggio alla realtà produttiva.

Oggi, per tutta una serie di motivi che non staremo a elencare ma che si riducono alla consueta difesa a oltranza dello statu quo, la parola d’ordine è gettare acqua sul fuoco. Il messaggio che si vuole lanciare è che il peggio è passato e che (pregasi applaudire o, almeno, tirare un vistoso sospiro di sollevo) il sistema non si è disintegrato. La riduzione obbligatoria dei consumi, determinata dal crollo della produzione e dai licenziamenti di massa, viene spacciata per una scelta etica di ritrovata sobrietà. Gli eccessi della speculazione vengono addossati a manager troppo famelici che, nell’ansia di spuntare bonus sempre più alti, gonfiavano a dismisura gli utili delle banche e delle finanziarie per le quali operavano.

Se solo si volessero riscrivere davvero, le regole della finanza mondiale, basterebbero poche frasi: e la prima è che le Borse si aprono solo una volta al mese e che nessuno può vendere nel corso della stessa seduta ciò che ha appena comprato. Cancellato il tourbillon dei continui cambi di mano, e quindi delle scommesse rialziste e ribassiste, e quindi lo scandalo degli acquisti senza denaro, il problema della speculazione sarebbe in gran parte risolto.

Ma siccome non se ne ha nessuna intenzione, vai con i vertici “globali” in cui molto si auspica e niente si migliora. Il G8 diventerà G20 e forse, in seguito, G32 o G48. Il consiglio d’amministrazione si allarga. L’oggetto sociale, ovverosia lo sfruttamento del pianeta e dei popoli, rimane lo stesso.


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