domenica 31 luglio 2016

Farsi Nazione

Farsi Nazione

GIUSEPPE MELIS GIORDANO


Preambolo 

Chi fa delle proposte ha sempre il dovere di farsi capire, con umiltà e con il massimo della semplicità, anche quando i concetti esposti appartengono a un campo di studio di non immediata comprensione, quale per esempio quello rappresentato dal management e dal marketing. In questo ambito infatti sono radicati il metodo e i principi cui mi sono rifatto nel trattare il tema della petizione intitolata “spostiamo la statua di Carlo Felice”.  
Al fine di favorire al massimo la comprensione dei punti che seguono anticipo il percorso che ho costruito per argomentarci intorno: innanzitutto c’è una prioritaria questione riguardante il metodo di analisi. Nel campo delle scienze sociali, quali sono l’economia, la sociologia, la politica, ecc. si utilizza ormai da tempo il metodo sistemico.  
Per questa ragione i punti 1, 2 e 3 che seguono esplicitano alcuni dei concetti riconducibili alla teoria dei sistemi, probabilmente noiosi per alcuni e, forse, ritenuti a torto lontani dal tema principale; eppure sono essenziali per comprendere il ragionamento proposto e le considerazioni svolte intorno al tema della Nazione Sarda prima (punti 4 e 5) e al senso della petizione (punto 6). 


1. Il sistema quale fenomeno emergente orientato alla riduzione dell’entropia 

La teoria dei sistemi nasce formalmente nei primi anni ’50 del secolo scorso per iniziativa di studiosi appartenenti a diversi campi che sentivano la necessità di dialogare attraverso un codice che permettesse di spostarsi da un campo all’altro senza perdere di significati nel proprio. Una teoria che col tempo si è arricchita di significati e concetti esplicativi volti a capire e interpretare la realtà.
 
Ora, il primo concetto sul quale soffermarsi è proprio quello di sistema, che, per farla breve, non sempre è dato, cioè esiste in natura. Infatti si distingue tra sistemi reali (quali per esempio tutti gli esseri viventi, i cui processi vitali non dipendono da atti di volontà) e sistemi concettuali, che sono invece il prodotto dell’azione di un particolare essere vivente che è l’uomo. Sono esempi di sistemi concettuali le lingue, la matematica, gli ordinamenti giuridici, le teorie economiche, sociologiche, psicologiche, ecc. ciascuna delle quali ha i propri codici connotativi e costitutivi. 

E le imprese? E le organizzazioni? E le istituzioni? E la Nazione senza stato? Questi sono sistemi sociali, aperti e dinamici seppure dotati di chiusura operazionale. In questo caso non siamo solo in presenza di un costrutto concettuale di stampo organicistico né una di una rappresentazione obiettiva e realistica dell'esistente, ma si tratta invece di un modo di osservare. 

Questo per dire che anche i concetti di Stato e Nazione sono il prodotto dell’azione umana che, si avvalgono di molti sistemi reali integrati da significati concettuali e, come tali, sono soggetti non a verità assolute ma al prodotto volontario dell’azione umana e segnatamente di un osservatore. 

Il sistema, qualunque sistema, pertanto, è un fenomeno “emergente”, che nasce cioè da un’interazione tra componenti, talvolta apparentemente casuali, altre volte derivanti da chiari, deliberati e consapevoli progetti che presentano un fine condiviso. In altre parole “il sistema è un ordine organizzato di relazioni, la cui emergenza nella realtà risulta relativamente improbabile in quanto la tendenza naturale e più probabile, stante il principio di entropia, è quella del disordine” (Pardi, 1998). 

È da queste brevi considerazioni che si comprende il significato di espressioni del tipo “occorre fare sistema”, a significare proprio il fatto che delle componenti reali (gli individui per esempio), agiscano nella prospettiva di interagire secondo finalità comuni e condivise, facendo nascere organizzazioni di natura pubblica e privata. Questo aspetto è essenziale anche ai fini delle considerazioni che seguono. 


2. Il ruolo del confine nei processi di costruzione delle identità e di identificazione 

In ogni sistema c’è un confine senza il quale esso non sarebbe identificabile. In altre parole il sistema esiste in termini relazionali con il contesto nel quale è inserito. Se non fosse possibile un atto di distinzione del sistema dal suo contesto esso, semplicemente, non esisterebbe. Il confine del sistema pertanto è indispensabile per “separare” lo stesso dal resto che lo circonda. 
Nel contempo, il confine diventa anche il “luogo privilegiato” dell’incontro tra sistemi. Quando poi alcuni di questi sistemi incontrandosi, agiscono insieme per comuni obiettivi ecco che essi possono diventare “uno”, spostando il confine ad un livello diverso. Il confine, pertanto, è l’elemento che influisce anche sull’ambiente specifico di riferimento del sistema: non esiste un ambiente dato, se non fino a un certo punto, perché è ambiente ciò che ha rilevanza per il sistema in un dato momento


3. Il ruolo tra sistema osservato e sistema osservante 

Nel trattare di qualsiasi sistema è anche possibile distinguere due prospettive, quella del sistema osservato e quella del sistema osservante: nel primo caso, il sistema osservato definisce la propria identità, il suo “essere” e il suo “apparire”, mentre il sistema osservante svolge le funzioni di “percepire” ed “enunciare” qualcosa sul sistema osservato. Ciascuno di noi, individualmente parlando, è, esiste in quanto prodotto storico dell’interazione con l’ambiente nel quale è vissuto fino a quel momento. La sua identità, pertanto, è frutto dell’educazione ricevuta, delle persone che ha frequentato, della consapevolezza di se che ha maturato e che gli ha permesso poi di prendere coscienza di se per progettare il suo presente e il suo futuro attraverso scelte riguardanti i valori cui ispirarsi, le decisioni da prendere, ma anche il modo con cui si vuole essere identificati (l’apparire, per l’appunto), a partire dalle scelte che si adottano per se stessi e per il contesto in cui si opera. 

Nel contempo, ciascuno di noi è oggetto di osservazione da parte di altri, dando origine a percezioni che sono proprie dell’osservante, e che in virtù di questo scontano il rischio di essere identificati in modo diverso da come il sistema osservato è e vuole apparire. 

Va da se che se un sistema osservato non vuole correre il rischio di essere identificato per ciò che non è o di non essere identificato deve lavorare sulla propria identità, sull’insieme di attributi che egli autonomamente decide lo debbano caratterizzare: per esemplificare, un brand e la sua identità sono decisi dall’impresa individuando gli attributi che devono caratterizzare quel brand. Fatto ciò, l’impresa adotta tutte le misure volte a far conoscere e apprezzare quel brand. Non è un caso che nel marketing si distingua tra “brand identity” e “brand image”, proprio perché la prima fa riferimento alle caratteristiche del sistema osservato, mentre la seconda a quella del sistema osservante. Nel marketing il problema sorge quando le decisioni dell’impresa di “posizionare” il brand nella mente dei consumatori produce risultati diversi da quelli desiderati: una brand image diversa dalla brand identity

Ovvio che nel passare da sistemi come l’impresa a sistemi più complessi ed allargati come comunità di destino, il processo di individuazione dell’identità e dei suoi attributi diventa leggermente più complesso, ma è possibile. Questo per dire che il concetto di identità e il processo di identificazione sono concetti relazionali, posizionali e contestuali

Relazionali perché derivano dalla relazione tra sistema osservato e sistema osservante, posizionale perché derivano da una volontà di autoriconoscimento e autodefinizione di chi vuole costruire su se stesso una propria identità, contestuale, perché tutto ciò avviene in termini dinamici e si modifica nel tempo. Il che vuol dire che un’identità individuata e riconosciuta in un certo periodo storico non è esattamente la stessa i ma ne conserva tratti tali da far definire quella stessa persona o comunità nello stesso modo: in termini sistemici si può dire che c’è un processo di autopoiesi  che modifica la struttura per conservare l’organizzazione. In altre parole, se nei secoli passati siamo stati identificati come Sardi, come popolo avente certe caratteristiche e quindi una certa identità tale per cui era possibile distinguerci da altri popoli, oggi l’operazione si ripete, su elementi che non sono necessariamente gli stessi, ma permettendo lo stesso processo di riconoscimento. 


4. La prova che la Sardegna è “Nazione” 

Il legittimo richiamo al riconoscimento “giuridico” da parte di una Corte, come richiesto da Marcello Carlotti, circa l’esistenza della Nazione Sarda dovrebbe avvenire apportando qualsiasi prova a supporto della stessa. Non sono un giurista e quindi non posso dire di essere totalmente certo, ma tra le prove che produrrei per dimostrare il nostro essere Nazione (non Stato) c’è prima di tutto e soprattutto la lingua sarda, come testimonia il documento qui linkato (http://www.europarl.europa.eu/roma/3/uploads/questo_parlamentopdf/minoritarie_in_europa.pdf). 

Questa prova ha forza sufficiente per dimostrare la nostra diversità come popolo, come Nazione in senso antropologico, ovviamente, e, in virtù di questo perseguire - qualora i diritti riconosciuti e citati nel documento linkato fossero posti a base della volontà di autoriconoscerci - con fierezza e senza vergogna la strada dell’autodeterminazione.

Il tutto non certo con intenti bellicosi, separatisti o isolazionisti, ma perché in un contesto relazionale la sudditanza di qualcuno verso qualcun altro non è requisito di “democrazia”, non favorisce la “pace”, non alimenta le collaborazioni e i processi di cooperazione, che per essere reali dovrebbero fondarsi sulla reciprocità e sul riconoscimento delle rispettive identità e non sull’esistenza di asimmetrie negative nei diritti. Il che, a scanso di equivoci, non significa che questa identità sia da considerare esclusiva e univoca (la mia sardità non esclude la dimensione cosmopolita che mi porto dietro col mio essere e sentirmi cittadino europeo e cittadino del mondo). 

Un altro documento che prova l’esistenza del Sardo come lingua e la possibilità di portarla come prova per il riconoscimento giuridico della Nazione Sarda si ha (e si è già avuta) ogni qualvolta un imputato ad un processo ha chiesto di essere interrogato in Sardo (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/12/sardo-lingua-lecito-richiedere-interprete-in-ogni-procedimento/1270438/), oppure quando uno studente discute una tesi o sostiene un esame utilizzando il sardo in un atto pubblico. Ma in realtà si possono produrre altre prove come quelle citate da Francesco Casula che non solo si dovrebbe pubblicamente ringraziare ma si dovrebbe leggere con attenzione per cogliere il senso della prova dell’esistenza di una “diversità”, di qualcosa cioè idoneo a identificarci come popolo. Noi, di quel popolo riconoscibile e riconosciuto allora, ne siamo oggi gli eredi, ancorchè diversi da essi, qualcosa che anche empiricamente può essere verificato da tanti di noi che, per esempio, andando all’estero e dicendo di venire dall’Italia ci si dice che noi non siamo come gli altri italiani, non migliori o peggiori, semplicemente diversi. 

L’analisi sistemica si sviluppa, quindi, secondo i principi di equifinalità (che è l’esatto contrario del determinismo) e della path-dependence («dipendenza dal percorso»), in base alla quale eventi passati, anche se non più rilevanti, possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione umana può modificare in maniera limitata. Ed è quello che è successo nel corso dei secoli dal momento che, nonostante l’azione volta a cancellare la nostra peculiarità – segnatamente da parte dei Savoia che hanno fatto di tutto per farci diventare “italiani” a tutti i costi, per ragioni di comodità loro, non certo perché pensassero a questioni quali quelle dibattute qui – essi ci sono riusciti solo in parte. Lo stato italiano poi ha continuato in questo processo di cancellazione delle differenze, alimentato da personaggi che con linguaggio dispregiativo vengono chiamati “ascari” perché, sentendosi più realisti del re, ci hanno indotto a vergognarci di tutto ciò che era differenza, di tutto ciò che era peculiarità, quando oggi, se penso al campo dell’economia e della concorrenza internazionale, la differenza è un vantaggio competitivo, il vero valore da tutelare e salvaguardare (si pensi per esempio a quanto è importante utilizzare i brevetti a tutela della proprietà intellettuale e industriale, oppure ai marchi DOC, DOP, IGP, ecc. a tutela di produzioni tipiche). 

Nondimeno, anche di fronte all’ammonimento delle istituzioni europee che proprio in questi giorni ha condannato l’Italia per non aver dato seguito alle iniziative volte a tutelare il sardo, questo Stato preferisce pagare una multa piuttosto che permettere che esso diventi una lingua normale, codificata, standardizzata, insegnata, studiata e praticata. E noi invece siamo stati e molti lo sono ancora oggi così “cretini”, oltre che ignoranti, da voler deliberatamente rinunciare alle nostre peculiarità per omologarci ad altri, annullando i propri confini, confondendosi con la massa indistinta come greggi senza forma e senza anima. 


5. L’importanza di auto riconoscersi come Natzioni Sarda! 

Silvano Tagliagambe, poco più di un anno fa, in un articolo pubblicato su Sardegna Soprattutto (http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/5775) scriveva: “Arroccato da millenni nell’angustia dei suoi pregiudizi culturali e garantito dalla legittimazione metafisica delle proprie sicurezze, l’Occidente si è reso sempre più impermeabile al significato della differenza e ha smarrito sempre di più la nozione delle proprie origini.” 

Questo gli serviva per dire che i Sardi dovrebbero recuperare il “senso” della propria identità che invece considera offuscata e per molti versi perduta o, addirittura, appiattita su stereotipi impostici dall’esterno. Il tutto perché è in atto un processo volto ad eliminare le differenze: “Questa delegittimazione delle differenze sta producendo il deserto dell’identità, sta rovesciando il senso e il valore di quello che Lacan chiama la fase dello specchio”. Questa espressione è utilizzata nella psicologia evolutiva di matrice lacaniana per indicare quel processo cognitivo, compreso tra i sei e i diciotto mesi di vita, in cui il bambino giunge a riconoscere l’immagine che scorge nello specchio come la propria.” 

Riferendosi alla Sardegna Tagliagambe continua sostenendo che “La fase di identificazione che stiamo attraversando in Sardegna … segna il rovesciamento di questo processo di appropriazione della propria immagine come parte costitutiva di sé. È infatti quella del momento in cui la rappresentazione tremolante e sfuocata di noi stessi ci viene restituita dallo specchio di una sorta di credito esterno: si tratta, cioè, del momento in cui ci si riscopre attraverso gli occhi degli altri. Ma questa immagine che salta fuori non è, a ben vedere, la nostra: è altra cosa da noi e dal nostro mondo, è folklore, è spettacolo, è l’espressione di una politica folklorizzata che parassita il bisogno di identità della gente e lo anestetizza, svuotando quel bisogno e quell’esigenza nel momento stesso in cui proclama enfaticamente di promuoverli e di valorizzarli.” 

Da questa frase, mentre si evince il bisogno della gente di avere un’identità, di riconoscersi come popolo sardo, nel contempo sottolinea che (questo lo affermo con parole mie) per colpe ascrivibili in gran parte al contesto sardo, soprattutto a certa classe cosiddetta intellettuale e dirigente, viene anestetizzato, reso inefficace, deriso, derubricato a folklore o a qualcosa di cui vergognarsi, al punto da indurre molti a diventare altro, a non riconoscere, rinnegandole, le proprie radici per costruirsi una identità sulla base di altri attributi esterni ed estranei al contesto di diretto riferimento. 

Come provare allora a “resistere”, a difendere e tutelare il bisogno della gente di autoriconoscersi con una propria identità di cui andare fieri, aprendosi al mondo e interagendo col mondo? E’ evidente che questo può accadere attraverso un consapevole e collettivo processo volontario di riconoscimento di se stessi come popolo, attraverso un insieme di attributi che favoriscano la costruzione di questa identità e il suo riconoscimento, sia interno (autoriconoscimento) che esterno. 

Definirsi Nazione oggi, allora, non equivale a qualcosa di uguale a ciò che era nel passato, ma il prodotto storico di ciò che permetteva allora di essere identificati come Naciò sardisca prima, come Sardi ieri (si pensi al viaggio di D.H. Lawrence e alla sua descrizione di ciò che trovò arrivando a Cagliari e viaggiando per la Sardegna) e come Sardi oggi, perché se non ci fossero degli attributi costitutivi di questa identità non saremmo neppure identificati come diversi. Per cui dire che non esiste una Nazione è, questa si, una falsificazione della realtà, ma la Nazione sarda esiste se i suoi componenti agiscono da Nazione, pongono in essere cioè atti in base ai quali la Nazione emerge sistemicamente giorno per giorno. Come?

Semplice, se io (inteso come popolo prima e come istituzioni rappresentative dello stesso) dico che il Sardo, un codice linguistico con cui voglio interagire con altri componenti la mia comunità, è un attributo significativo e rilevante della mia identità, io lo devo insegnare, lo devo studiare, lo devo praticare, lo devo codificare, lo devo rendere “standard” per atti pubblici, e tante più decisioni adotterò per marcare questa peculiarità, tanto più contribuirò a costruire oggi, hic et nunc, la Nazione Sarda del XXI secolo. E lo faccio anche inserendo nei programmi di insegnamento lo studio della storia di questa terra, permettendo cioè di accedere a conoscenze finora escluse dal processo di formazione della gran parte di questo popolo, inteso come comunità di destino, in parte nativo e in parte immigrato per scelta o per caso. E lo faccio altresì, per esempio, decidendo che se una strada fino a oggi qualcuno ci ha costretto a chiamarla con il nome di un tiranno, perché questo era il modo principale per far perdere consapevolezza del proprio vissuto e del proprio passato, io oggi posso liberamente decidere di cambiare la denominazione di quella strada in modo coerente con l’identità che oggi voglio costruire di me stesso. Essere oggi Nazione vuol dire fare scelte come queste, anche se non solo queste ovviamente. 


6. Guardare il dito o guardare la luna? 

Fuori di metafora, ecco allora che la petizione “spostiamo la statua di Carlo Felice” è il “dito”, e la “luna” è la costruzione della Nazione Sarda, esattamente quella a cui guardano i promotori della petizione con la quale si chiedono quattro cose semplici e chiare. 

La petizione vuole innescare un processo che è culturale e politico, come dichiarato fin dall’inizio, che vuole contribuire a costruire e irrobustire in modo consapevole quel senso di Nazione che si avvale della combinazione di essere un popolo (una comunità di destino), in una terra definita, con una propria lingua riconoscibile, riconosciuta e tutelata in ambito giuridico internazionale. 

Chiedere alla municipalità di Cagliari di farsi interprete e promotore presso le scuole della città di programmi finalizzati a far rientrare lo studio della storia della Sardegna nelle scuole di ogni ordine e grado vuol dire permettere ai nostri giovani di poter formare la propria identità anche studiando questa parte di storia oggi negletta. L’identità se la formeranno essi, non gliela imponiamo noi, ma noi lavoriamo per metterli nella condizione di farlo, di colmare un gap, di aggiustare una finestra rotta. Oggi invece si formano una loro identità attingendo esclusivamente e arbitrariamente alla sola storia italiana ed europea, se non ci sono insegnanti illuminati che volontariamente integrano i programmi con queste conoscenze specifiche. 

In secondo luogo si chiede di cambiare nome ad una strada oggi dedicata a Carlo Felice (in verità anche l’attuale Assessore della RAS ai lavori pubblici fece una proposta analoga per la SS 131). Perché Carlo Felice? Perché simboleggia un periodo di repressione alla voglia di libertà e di riscatto di quelli che ci hanno preceduto. 

Marcare culturalmente il distacco dalla sudditanza rappresentato da colui che in base alle cronache del tempo si può definire il peggiore dei regnanti di Casa Savoia, è un passaggio dal valore psico-sociale collettivo inestimabile, volto a marcare quella nostra identità che non vuole lasciare adito a dubbi circa la “luna” verso cui vorremo andare. Il valore di questo cambiamento è da considerare ben superiore al fastidio “amministrativo” derivante dal cambio di indirizzo di chi abita e lavora in quel tratto di strada, sicuramente meno costoso e fastidioso di quanto accaduto, per esempio, nel passaggio dalla lira all’euro, eppure si fece. 

Se poi nella petizione c’è scritto che “Non esiste Paese al mondo in cui i tiranni, una volta deposti, trovano spazio nelle piazze e nella toponomastica delle città, eppure in Sardegna e a Cagliari questo è ancora li” si vuole dire che solo l’ignoranza diffusa sul personaggio e le sue malefatte giustifica che mai nessuno si sia posto questo problema. Mettersi oggi questo problema, non vuol dire riscrivere la storia, non vuol dire cancellare il passato, vuol dire solo mettere ordine oggi in ciò che vogliamo essere da qui in avanti, senza ambiguità e con consapevolezza. A titolo di esempio si può ricordare che chiunque abbia viaggiato avrà avuto l’occasione di passare in spazi cittadini con al centro una colonna, un monumento, una statua e, in virtù di questo chiedere, magari ad un tassista, chi rappresentasse quella statua? Se uno non sa chi è stato quel signore che campeggia in quello spazio può dire semplicemente il nome, senza aggiungere altro, magari inducendo l’osservatore a ritenerlo un benefattore. 

Ebbene, cambiare il nome alla strada è uno dei tanti modi attraverso cui si può esercitare la costruzione, hic et nunc, della volontà di essere Nazione. Qualsiasi altro discorso sulla ferocia di questo o di altri regnanti dei Savoia, o di altri tiranni del passato, o di contesti storici o del significato giuridico di cosa fosse allora la Nazione, è solo pretestuoso rispetto agli obiettivi di questa iniziativa. Ciò detto, la petizione si può migliorare, affinare, perfezionare e anche correggere laddove avesse imprecisioni o errori sostanziali, ma non cambiare in base a obiettivi diversi da quelli indicati dai proponenti.
La terza richiesta della petizione riguarda lo spostamento della statua di Carlo Felice che ho qualificato come bene “mobile” e non “immobile” e l’ho fatto perché già ci sono esempi, anche in Italia, di statue che sono state spostate e che quindi si possono spostare, vuoi per interventi di manutenzione, vuoi perché l’amministrazione comunale ha deciso di modificare quello spazio, di effettuare cioè un’operazione di sensemaking urbano, o di marketing urbano, di riprogettazione degli spazi, come sempre è accaduto nella storia. È però certamente possibile che l’introduzione del Codice dei beni culturali e del paesaggio classifichi tali monumenti come beni “immobili” e quindi potrei aver “forzato” la mano, giuridicamente parlando, qualificando quella statua come bene mobile indotto dal fatto che l’operazione di spostamento, pur maggiormente complessa di quella di un soprammobile, sia possibile e realizzabile. 

In ogni caso, se anche fosse così, le motivazioni di cui sopra potrebbero consentire l’apertura di un eventuale “contenzioso” con la Soprintendenza volto a far valere ragioni superiori rispetto al mantenimento della statua in quel luogo. Solo una lettura statica e dogmatica delle leggi può indurre a rifiutare a priori qualsiasi ragionamento volto invece a modificare significati. E d’altro canto, siccome le leggi sono sistemi concettuali, sono cioè il prodotto dell’azione umana, non sono verità assolute, si possono cambiare se si reputa che siano inadeguate rispetto a obiettivi considerati superiori. A tale proposito ricordo persino che per fare la diga del primo lago Omodeo si spostò addirittura la chiesa di Zuri e in Egitto si spostò il tempio di Luxor. 

E allora? Ma de ite seus chistionendi? Capisco che cogliere l’invito di guardare la luna per chi è più realista del re è difficile, perché le certezze dei dogmi sono un baluardo inespugnabile, e la miopia quando grave e greve permette di vedere solo la punta delle dita, altri di più aperta visione potrebbero invece valutare e apprezzare questo invito che non distrugge valore, ma caso mai ne crea sia sul piano culturale che politico. Non mi soffermo ora sui costi dello spostamento perché appena avrò il budget lo pubblicherò e se c’è chi ha già fatto delle stime dovrebbe sentirsi in dovere di renderle note, in base a preventivi verificabili, così da valutare meglio l’entità della raccolta volontaria dei fondi senza aggravi di costi monetari per l’amministrazione comunale. 

La quarta richiesta, infine, riguarda la sostituzione dell’attuale monumento con un altro che i promotori della petizione hanno ipotizzato alternativamente in Giovanni Maria Angioy o nei Martiri di Palabanda. Si tratta di scelte non casuali, perché espressive di quella voglia, presente anche al tempo dei Savoia, di ribellione alla tirannia e alla sudditanza. In positivo si tratta cioè di mettere nella pubblica piazza qualcuno verso cui provare orgoglio, che in qualche modo rappresenti la nostra identità. Non è un caso che tra le tante proposte, una delle più gettonate sia quella del campione di calcio, sardo di adozione, Gigi Riva. Io personalmente non sono favorevole, nonostante di questo campione ne sia stato e ne sia tutt’ora un estimatore assoluto. Lui se dovrà essere ricordato in modo visibile e tangibile, lo sarà negli spazi deputati a ricordarlo per le gesta sportive. In città, in quella parte di città ci va invece qualcuno che segni, che marchi, la decisione del Consiglio Regionale della Sardegna di istituire la giornata del popolo sardo, sa die de sa Sardigna. 

La controversia con i denigratori dell’iniziativa qui starebbe nel presunto alto costo, quantificato in circa 150 mila euro, il tutto supponendo che debba essere sempre in bronzo, e magari anche vestito in abiti romani e magari della stessa dimensione, e magari sticazzi. Sinceramente penso che si potrebbe indicare un tema e fare un concorso di idee lasciando ad artisti locali e non, il compito di cimentarsi in questa impresa che porterebbe l’artista ad essere poi ricordato per l’opera compiuta e che egli potrebbe decidere di donare alla municipalità, riducendo così i costi alla sola installazione. In ogni caso, i documenti pubblicati e correlati alla petizione evocano il crowdfunding come strumento di raccolta delle risorse a totale o parziale copertura dei costi.
  

Post fazione - Il dogmatismo quale incompetenza valoriale 

Vorrei far notare infine che la forma con cui si interagisce è sostanza e che autocertificare le proprie competenze ergendosi a giudice di quelle altrui in modo tanto dogmatico quanto imprudente, è una grave “incompetenza” di tipo relazionale, oltre che professionale, poiché chiude la mente, impedisce di “accogliere” idee diverse e isola il soggetto. 

Questa apertura è possibile invece proprio evocando il concetto di confine, definito in letteratura come luogo epistemologicamente privilegiato per “incontrare” il diverso, perché questo confine si fa “metodo” per instaurare relazioni. Lavorare al confine significa saper accogliere le idee altrui senza giudicarle ma cercando di capirle e se non chiare, di fare domande per comprenderle. 

Il sapere, infatti si declina in tre dimensioni: 
a) quello nozionistico di cui uno può dare sfoggio utilizzando, spesso in modo strumentale e decontestualizzato rispetto al discorso proposto, ciò che fa comodo, magari agganciandosi ad ogni dettaglio e perdendo volutamente di vista il senso complessivo del discorso stesso;  
b) il sapere professionale, legato cioè al saper fare bene il proprio mestiere e, in questo sarebbe bene non giudicare mai l’altro se non si è avuta la possibilità di una interazione così intensa e pregnante tale da evitare il rischio di prendersi una denuncia per diffamazione;  
c) il sapere relazionale, dato dalla capacità di saper entrare in relazione con altri, circostanza questa particolarmente apprezzata dalle imprese e dalle organizzazioni in cui si ricercano sempre più spesso soggetti capaci di lavorare in team, non solisti che onanisticamente cercano di imporre il proprio ruolo ponendosi contro l’universo mondo.


Nessun commento:

► Potrebbe interessare anche: