giovedì 9 settembre 2010

Viva l’economia della felicità

I ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti: la loro vita è più stabile

Manuel Castells
www.internazionale.it


Manuel Castells

Tre mesi fa, in un discorso all’università della Carolina del Sud, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha deciso di parlare dell’economia della felicità. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola.In realtà Bernanke rientra in una corrente sempre più nutrita di professori, politici e imprenditori che stanno cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice, anche se poi ognuno lo intende a suo modo.

Il denaro non fa la felicità e neanche il consumo. Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso sostituendo il calcolo del prodotto interno lordo con l’indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan. Proposto nel 1972 dal re Jigme Singye Wangchuk, l’indice è diventato il parametro di sviluppo multidimensionale del paese, che combina tra loro quattro obiettivi: uno sviluppo economico equo e sostenibile in cui la crescita si traduca in beneici sociali per i cittadini, la conservazione dell’ambiente naturale, la difesa e la promozione dell’identità culturale butanese, un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale da cui dipende l’armonia della vita quotidiana.

L’indice nazionale di felicità si basa su alcuni princìpi buddisti radicati nella cultura del Bhutan, ma la sua applicazione può essere estesa a qualunque paese o regione che scelga l’armonia come principio di organizzazione sociale. Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale si è estesa a tutto il mondo.

Esistono indici comparati dei livelli di felicità che, se volete, potete trovare su internet e dimostrano che il Bhutan, un paese povero con meno di 700mila abitanti, è tra i primi venti al mondo per livello di felicità. Ovviamente tutto dipende dai criteri di misurazione scelti. E in questo i butanesi e i loro amici di altri paesi non sono soli. Sempre più studiosi stanno conducendo ricerche su questo tema, proponendo innovazioni metodologiche che tengono conto anche delle statistiche sullo sviluppo umano.

Così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perché la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità. La crescita rapida abbassa il livello di fe- licità perché sconvolge la ruotine quotidiana.

Carol Graham, una ricercatrice della Brookings institution, ha condotto un’indagine in vari paesi e ha scoperto che i fattori chiave della felicità sono una vita privata stabile, rapporti afettivi soddisfacenti, una buona salute e un reddito suiciente. Ma ha anche osservato che la felicità aiuta a essere in buona salute. Dagli studi fatti emergono due fattori fondamentali: la socialità e la capacità di adattamento. Più reti familiari e sociali abbiamo, più siamo felici.

Gli esperti di comunicazione hanno già individuato questo fattore come il motivo determinante del successo dei social network. Più internet, più socialità, sia virtuale che reale. E maggiore è la socialità, maggiore è anche la felicità. Il rapporto con la comunità è essenziale per mantenere l’equilibrio psicologico. Partendo da questo presupposto alcuni programmi di assistenza sociale, per esempio in Canada, prevedono l’organizzazione di attività per i disoccupati che generino reti di relazioni sociali e raforzino l’autostima.

D’altra parte la capacità di adattamento degli esseri umani riesce a gestire delle condizioni di disequilibrio attraverso meccanismi di compensazione nei comportamenti. Bernanke ha citato un paragrafo rivelatore di Adam Smith: “La mente di ogni uomo, prima o poi, torna al suo stato naturale e usuale di tranquillità. Nella prosperità, dopo un certo periodo di tempo, riscende a quel livello; nelle avversità, dopo un certo periodo di tempo, risale a quel livello”. Quest’afermazione, corroborata dagli studi di psicologia economica, spiegherebbe la relativa calma sociale in situazioni di crisi: tutti inziamo per adattarci a cose che ci sembrerebbero insopportabili in altre condizioni.

Ma è proprio questa capacità di accontentarsi a produrre un’armonia che dipende da noi e non dal valore della vita misurato in termini monetari. In in dei conti lo scopo dell’economia classica era rendere felici gli esseri umani. Invece il concetto di felicità, data la diicoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo.

Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di afetto a quello di difendere i beni comuni (come la natura). Anzi, la fuga nel consumo accentua gli squilibri psicologici. Per questo non è un caso che quando ci viene a mancare il mercato ci sentiamo vuoti. Ma questo vuoto si va riempiendo delle scelte a cui fa riferimento questo nuo- vo ilone di ricerca, sintomo di un profondo cambia- mento culturale: l’economia della felicità. Spero abbiate trascorso delle vacanze felici.


Comunicazione e potere

MANUEL CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009)

Guardando i dati di tutti gli stati del mondo sembrerebbe però che le popolazioni più felici si trovino nell’America centrale!

Ecco la mappa dell’HPI di tutto il mondo:

Cartina dell’Europa che indica il livello di felicità nei vari Stati, calcolato in base all’indice HPI (Happy Planet Index)!

Questo indice prende in considerazione tre variabili: il livello di soddisfazione personale, l’aspettativa di vita e l’impatto ecologico.

A quanto pare, nonostante tutto, pare che in Italia non si stia cosi’ male!

martedì 7 settembre 2010

Con Eta «niente da negoziare»



tradutzioni de su comunicau bideu in itallianu

"Molto è accaduto da che è organizzata una strategia selvaggia di negazione e annientamento dei Paesi Baschi e con le armi in mano, ETA è piegata nella lotta per la libertà.

i cittadini, uomini e donne si sono date il meglio delle loro speranze e aspirazioni ordinarie di diversa provenienza si sono uniti nella lotta comune.

Data la riforma politica del franchismo, impegnate nella negazione e annientamento dei Paesi Baschi, mentre altri han deciso di presentarsi nel quadro di quello che chiamano "autonomia", l'ETA ha agito responsabilmente proponendo una chiara rottura democratica e dispose la resistenza ai tentativi di assimilazione e di attacchi.

ETA e, in generale, il basco di sinistra, hanno continuato nella lotta. E il suo costo non è stato piccolo. Stiamo pagando molto caro: la tortura, il carcere, l'esilio o la morte.

Ma i frutti di questa lotta è stata difficile la sopravvivenza del Paese basco che ha mantenuto aperta la porta a una versione futura.

Abbiamo dimostrato che il quadro regionale non è il modo per soddisfare i desideri del popolo basco, che non è solo uno strumento per influenzare la divisione e smembramento del Paese Basco. E ci siamo riusciti, uno dopo l'altro, misure per neutralizzare la lotta di liberazione.

Uno dei lavori di ETA è stato quello di aprire nuovi scenari nella lotta di liberazione del popolo basco. Così, l'ETA ha contribuito a presentare proposte per iniziative di collaborazione e le risoluzioni del conflitto.

In tempi recenti, il Paese Basco è stato trovato in un crocevia importante. La lotta politica ha lasciato il posto alle nuove condizioni. Venduto in autonomia, è il momento per un cambiamento politico. Ora è il momento di costruire un quadro democratico per il paese basco, nel rispetto della volontà della maggioranza del popolo basco.

Lo Stato spagnolo è consapevole che il Paese basco è a un bivio, e si può scegliere il percorso di indipendenza. Vogliono creare le condizioni in cui è bloccato tutto, vogliono evitare il dialogo politico e soffocare le aspirazioni delle persone in stato di emergenza.

Gli attivisti baschi ei cittadini baschi devono rispondere a questa situazione in modo responsabile e con urgenza.

E 'tempo di assumersi le proprie responsabilità e prendere misure forti ... nella articolazione del progetto di indipendenza, la creazione di condizioni democratiche in risposta alla repressione e alla difesa ferma delle libertà civili e politiche.

cambiamento politico è possibile. Ma in questo modo non ci sono scorciatoie.

Il sentiero della libertà si deve percorrere, passo dopo passo, magari con flessibilità, ma sono necessari sforzi e la lotta per raggiungere tale obiettivo.

Senza confronto, è impossibile superare la negazione e isolazionismo. In questa direzione, l'ETA ha sempre teso la mano.

ETA conferma il suo impegno a trovare una soluzione democratica al conflitto. Nel suo impegno a realizzare un processo democratico che consente di decidere liberamente e democraticamente il proprio futuro attraverso il dialogo e di negoziati, l'ETA è pronto, oggi come ieri, a concordare le condizioni democratiche minime necessarie per avviare un processo democratico, se il governo spagnolo ha la volontà.

Ciò che sappiamo anche che la comunità internazionale, che voglia di rispondere alla volontà e l'impegno di ETA a partecipare alla costruzione di un duraturo, giusto e democratico la lotta politica di secoli.

ETA ha annunciato che alcuni mesi fa ha preso la decisione di non svolgere azioni armate.

ETA vuole ribadire l'invito ad agire responsabilmente in merito a tutti gli attori politici, sociali e sindacali baschi, ribadisce che, in quanto le persone hanno bisogno di intervenire con decisione a raggiungere una fase del processo democratico e dare voce al popolo.

Perché la porta alla vera soluzione del conflitto sarà aperto soltanto quando i diritti dei Paesi Baschi sono riconosciuti e ratificati.

In conclusione, facciamo appello a tutti i cittadini baschi di continuare la lotta, ciascuno nel suo campo, con l'impegno di tutti, tutti insieme riusciremo a rompere il muro di rifiuto e passo irreversibile strada verso la libertà. "
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Quasi unanime e troppo scontata la risposta di governo, partiti e media
Dopo l'annuncio di domenica scorsa di una «alto el fuego»

Maurizio Matteuzzi
ilmanifesto.it
In Spagna tutti o quasi - governo di sinistra e opposizione di destra, il resto dei partiti e i giornali - a minimizzarne l'importanza e liquidarlo come «insufficiente» e «deludente», «ambiguo», «fraudolento», «fumo negli occhi», «una trappola», «una nuova manovra», «un canto di sirene». Nel Paese basco reazioni più prudenti e favorevoli: «un valido contributo alla costruzione della pace e al consolidamento di un processo democratico», una prima risposta «importante e positiva» alle pressioni della sinistra abertzale (radicale) basca per una soluzione politica.

Ma il video diffuso domenica, grazie allo scoop del giornalista Clive Myrie della Bbc (che l'ha avuto da una sua fonte alla Gare du Nord di Parigi dopo un primo contatto alla stazione del metro di Covent Garden a Londra) e poi pubblicato in prima pagina dal giornale basco Gara, in cui l'Eta annuncia, unilaterlmente e senza condizioni (ma anche senza precisare se sia permanente o no), «la cessazione delle azioni armate offensive», al di fuori della Spagna è stato preso sul serio. Non solo da Gerry Adams, storico leader del Sinn Fein - il braccio politico dell'Ira - ma anche dalla Commissione europea di Bruxelles. Adams, che ha avuto un ruolo centrale nel processo politico che ha portato alla soluzione negoziata del conflitto in Nord-Irlanda ed è impegnato nella ricerca di un'analoga soluzione politica - l'unica ragionevolmente praticabile, anche se costosa e sempre rifiutata dai vari governi spagnoli - del conflitto basco, ha espresso «soddisfazione» per «il significativo» annuncio dell'Eta «di cercare l'indipendenza di Euskadi per vie democratiche» e afferma di considerare «vitale che il governo spagnolo risponda in modo positivo, approfitti dell'opportunità per far avanzare un processo di pace e stabilisca rapidamente negoziati politici non escludenti». La Commissione europea considera che l'annuncio da parte di Eta (l'undicesimo in 42 anni) offra «motivi di prudente speranza» e afferma che «seguirà da vicino gli sviluppi».


Le reazioni on Spagna, per il momento, non danno spazio né agli auspici di Adams né alle «prudenti speranze» di Bruxelles. La prima risposta del governo socialista di Zapatero è stata affidata, ieri, al ministro degli interno Alfredo Perez Rubalcaba: «scetticismo» su tutta la linea; «la politica antiterrorista» che ha inferto colpi durissimi all'Eta «si manterrà intatta»; «nessuna tregua» da parte dello stato e dei servizi; niente negoziati perché con l'Eta «non si può dialogare» e non c'è nulla da negoziare. Idem il Partido popular (con l'eccezione dell'euro-deputato Jaime Mayor Oreja, ex ministro degli interni di Aznar, che accusa da mesi il governo di essere in negoziati segreti con Eta e l'annuncio di domenica è il loro risultato). Idem i partiti nazionalisti non baschi e anche l'unico deputato di Izquierda unida Gaspar Llamazares: «Quello che ci si aspetta dall'Eta non è una tregua ma la cessazione definitiva delle azioni armate». Sole voci discordanti il deputato di sinistra catalano Joan Herrera (il governo «non deve lasciarsi sfuggire l'opportunità») e il Blocco nazionalista gallego.
Forse non può essere che così visti i precedenti. Perché non è solo l'Eta a essere debolissima e minata da divisioni interne nella sua deriva militarista-terrorista. Debolissimo in questa fase - dopo i devastanti effetti della crisi economica che ha spazzato via «il miracolo spagnolo» - è anche Zapatero. Quando volava alto, si era provato a tentare la strada di una soluzione politica e negoziata del conflitto basco, e l'Eta nel marzo 2006 aveva proclamato un «alto el fuego permanente». Ma, sotto l'attacco violentissimo della destra (anche se Aznar aveva a suo tempo intavolato negoziati con «la banda terrorista») e dei media, quell'ipotesi naufragò e l'Eta riprese l'attività armata in dicembre.
In Spagna ci si interroga sul perché dell'annuncio dell'Eta adesso. Per guadagnare tempo e riorganizzarsi dopo i durissimi colpi subiti? Per le pressioni degli sponsor internazionali (l'appello dei 4 Nobel per la pace per un cessate il fuoco «permanente» del marzo scorso) e di Batasuna (illegalizzata come «braccio politico dell'Eta» dalla sciagurata «Ley de partidos» approvata praticamente all'unanimità nel 2002), che aspira a reintrare nel gioco politico legale in vista delle amministraive del maggio prossimo? Una risposta positiva a Batasua o velenosa per dimostrare che la via legale è impraticabile e quindi per l'indipendenza non resta che la via armata? La «lotta anti-terrorista» non è un pretesto troppo allettante per i partiti spagnoli a fini elettoral-politici e per non affrontare il nodo basco? Domande a cui il tempo risponderà.
murales eta murales eta

http://www.youtube.com/watch?v=bBWDDBpf3Yw&feature=related



domenica 5 settembre 2010

Si riaccendono le speranze delle vittime di Bhopal

La Corte suprema accoglie il ricorso del governo di Dheli e decide di inasprire le accuse contro i dirigenti dell'impianto che causò il più grave disastro industriale della storia

di Clara Gibellini
ilfattoquotidiano.it
Un omicidio di massa e non una tragica fatalità. Si riaccende la speranza delle vittime di Bhopal affinché sia fatta giustizia. La recente decisione della Corte Suprema indiana ha infatti deciso di accogliere il ricorso del governo per inasprire i capi di imputazione contro i responsabili del più grande disastro chimico della storia.

A tre mesi dalla sentenza choc che, il sette giugno scorso, ha dichiarato colpevoli di “criminale negligenza umana” sette ex dirigenti della Union Carbide, condannandoli a due anni di detenzione e al pagamento di un’irrisoria multa di 100mila rupie (appena 1.700 euro). Oggi i rappresentanti della multinazionale, potrebbero essere nuovamente incriminati per omicidio colposo.

La Union Carbide, oggi assorbita dalla Dow Chemical, era la proprietaria della fabbrica di pesticidi nella città di Bhopal, dove, nella notte fra il 2 e il 3 dicembre 1984, una fuoriuscita di gas venefici causò la morte per avvelenamento di oltre 3000 persone e, nel corso dei decenni, l’agonia di almeno altre 20mila vittime contaminate dai veleni fuoriusciti dalla fabbrica.

La riapertura della causa innalza fino a dieci anni di carcere la pena prevista per i responsabili di quel disastro. Una buona notizia per le associazioni di sostegno ai sopravvissuti, che dopo decenni di proteste per ottenere risarcimenti adeguati alle dimensioni della catastrofe, vedono ora la possibilità di riscrivere almeno l’epilogo giudiziario dell’evento che ha sconvolto la loro esistenza. «Questa decisione è un grande passo per riparare ai numerosi torti causati negli anni dalla Corte suprema. Siamo molto soddisfatti perché ciò rende più concreta la possibilità che i responsabili scontino la loro pena” – ha affermato Satinath Sarangi del Bhopal Group for Information and Action.

Per ottenere giustizia, la vera conquista sarebbe però quella di riuscire a riportare in India Warren Anderson, presidente della Union Carbide al momento della tragedia, e considerato il vero responsabile della mancanza di manutenzione, controlli e sicurezza che hanno provocato la fuoriuscita del gas dalla fabbrica costruita in uno dei sobborghi più popolosi della città. Arrestato pochi giorni dopo il disastro e rilasciato su cauzione, Anderson, oggi novantenne, si è poi rifugiato negli Stati Uniti, dove grazie alla complicità del governo e alle tardive richieste di estradizione da parte della giustizia indiana, vive da venticinque anni una lussuosa vita da latitante.

Dopo la sentenza “farsa” di giugno, il governo di Nuova Delhi ha dichiarato di voler acquisire nuove prove contro l’intoccabile ex presidente e a Bhopal molti sperano che la questione della sua estradizione rientri nell’agenda della prossima visita, a novembre, di Barack Obama in India.

venerdì 3 settembre 2010

ASINARA/VINYLS Via al secondo bando Verso i 200 giorni da «reclusi» sull'isola












Costantino Cossu

ilmanifesto
PORTO TORRES (SASSARI)

«Facciamo colazione consapevoli che questo è un momento importante, che deciderà del nostro destino. L'umore non è dei migliori, ci facciamo coraggio l'un l'altro e cominciamo una nuova giornata di lotta. A pranzo poi Antonio prepara delle pennette condite con pomodoro fresco, aglio e basilico. Ottime. Se non lo sposa Piera, Antonio lo sposiamo noi».

Una giornata quasi come le altre 188 ormai trascorse, dal 24 febbraio, nell'ex supercarcere dell'Asinara dai cassintegrati della Vinyls. Quasi. Ieri, infatti, è stato pubblicato, sul sito Vinyls Italia, il secondo bando i
nternazionale, dopo il primo del marzo scorso, per la cessione degli stabilimenti di Porto Marghera (205 dipendenti), di Ravenna (45) e di Porto Torres (120) dell'azienda chimica in amministrazione straordinaria. I gruppi industriali o finanziari eventualmente interessati potranno presentare un'offerta d'acquisto, da depositare presso un notaio di Venezia, entro il 22 ottobre prossimo alle 18. La richiesta dovrà contenere, tra l'altro, il prezzo e gli impegni sui livelli occupazionali e sulla ripresa della produzione per almeno un biennio.

Il bando, firmato dai commissari straordinari della Vinyls (Franco Appeddu, Mauro Pizzigati e Giorgio Simeone), recepisce l'accordo sottoscritto il 22 luglio scorso al ministero de
llo Sviluppo economico per la ripresa del ciclo cloro-Pvc nei tre stabilimenti interessati.

Saranno i commissari a procedere alla scelta finale, valutando, in particolare, la situazione patrimoniale e finanziaria di chi avanza le offerte, oltre che la capacità degli acquirenti di far fronte agli impegni, anche finanziari, derivanti dall'acquisto. Per dare ai potenziali compratori informazioni esaurienti sulla situazione degli stabilimenti in vendita sarà allestita a Marghera, nella sede della Vinyls I
talia, una «data room», che sarà aperta dal 20 settembre all' 8 ottobre. Lo scorso marzo l'unico soggetto interessato all'acquisto, il gruppo Ramco del Qatar, aveva rinunciato durante le trattative.


«Chiunque compri - dicono ora i cassintegrati della Vinyls - farà un buon affare. La nostra fabbrica produceva cloruro di vinile da etilene e dicloroteano con una capacità annua di circa 170 chilotoni. E ha anche un impianto per produrre polivinicloruro in emulsione (Pvc/E) con una capacità di circa 65 chilotoni. Impianti tecnologicamente avanzati e professionalità eccellente, oggi mandata al macero».

Prosegue intanto il sostegno spontaneo alla lotta degli operai di Porto Torres, anche in forme minime: «L'altro ieri la signora Rosa di Ittiri, un piccolo paese vicino a Sassari, ci ha inviato delle ottime angurie. Ricambiamo con baci e abbracci». E si cercano sostegni fuori dall'isola: «Due di noi, Pietro e Andrea, stanno per partire alla volta di Piacenza alla festa del Partito democratico. Chiederanno alle forze di opposizione di unirsi per combattere in Parlamento in difesa del lavoro, incalzando i banditi che sono al governo. L'economia è la vera emergenza. Serve una politica industriale vera, in tutti i settori, non solo in quello della chimica».

Dopo sei mesi trascorsi nelle celle dell'ex carcere, c'è un po' di stanchezza, ma anche molta determinazione a continuare: «La nostra situazione è disagiata, ma non cederemo. Rivolgiamo un pensiero ai minatori cileni bloccati nelle viscere della terra. Dovranno resistere più di noi per ritornare alla superficie». Sintonia anche con i pastori che rischiano di finire sul lastrico per il crollo del prezzo del latte. Durante il blitz degli allevatori nei giorni scorsi in Costa Sm
eralda
c'era una rappresentanza dei cassintegrati Vinyls.

martedì 31 agosto 2010

Il gene del profitto che va modificato

Claudio Malagoli*
www.ilmanifesto.it



Il nostro paese con il 7% circa della superficie agricola utilizzata (12,7 milioni di ettari), produce il 13% circa del fatturato agricolo dell'Ue (50.000 milioni di euro), segno inequivocabile di una produzione ad alto valore aggiunto, decisamente apprezzata dal consumatore. Da un punto di vista economico e sociale si tratta di un grande patrimonio da tutelare, in quanto la produzione agricola per il mercato rappresenta solo una parte dei reali benefici che il settore agricolo apporta alla collettività. Non dobbiamo dimenticare che nel nostro paese il ruolo dell'agricoltura è di fondamentale importanza per il presidio e la manutenzione del territorio, per la conservazione dell'assetto idrogeologico, per la conservazione e la tutela del paesaggio, per la conservazione della biodiversità, per la creazione di spazi ad uso ricreazionale, ecc. Pertanto è riduttivo vedere l'agricoltura solo dal lato produttivo per il mercato, occorre vederla e tutelarla per le esternalità positive che essa fornisce.

Ecco allora che la nostra società ha bisogno della presenza dell'agricoltura e dell'agricoltore sul territorio e dovrà adottare politiche in grado di proteggere il suo reddito, al fine di consentire la permanenza di questa attività anche in aree marginali, che non possono certo competere sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita. È in questo contesto che si inseriscono le problematiche relative agli organismi geneticamente modificati. Purtroppo qualcuno crede ancora che lo sviluppo di una società dipenda dal prodotto interno lordo, per cui se gli ogm sono un modo per incrementare il Pil devono essere accettati e chi esprime pareri contrari, o quantomeno scettici, è ipocrita o falso. Se questo ragionamento fosse vero, perché essere contrari agli ormoni utilizzati nell'allevamento bovino, o agli animali transgenici, o agli animali clonati, o agli animali transgenici clonati?
Secondo queste persone qual'è l'obiettivo degli ogm? Facile: produrre cibo a basso costo per esportare e per fare profitto. È pura utopia pensare che il nostro paese possa essere competitivo sul mercato internazionale con gli stessi prodotti! L'Italia, con aziende agricole della superficie media di 5-6 ettari (contro i 220 ettari degli Usa), con i suoi costi burocratici, con la sue limitazioni nell'uso di antiparassitari e di concimi («legge nitrati» ), con il suo sistema sociale, come potrà competere con gli stessi prodotti con gli Usa, con la Cina o con l'Argentina? Sarebbe come se la Ferrari volesse competere con la Fiat nella produzione delle Panda, sarebbe come se Valentino volesse competere con l'India nella produzione delle magliette di cotone!

Occorre poi considerare che sul mercato internazionale vige ancora il baratto per cui se noi esportiamo qualcosa, poi dobbiamo importare come pagamento qualcos'altro. Ecco allora che le cose cambiano, in quanto l'invasione dei pomodori dalla Cina o delle carni dai paesi dell'Est (spesso esportati con politiche di dumping) probabilmente non è legato allo sviluppo tecnologico, ma è il risultato di accordi commerciali mediante i quali noi esportiamo prodotti industriali/tecnologici e loro ci pagano con quello che hanno, prodotti agricoli. Ecco allora che in questo modo si rischia di mettere in discussione anche la sovranità alimentare del nostro Paese. Mai come in questi ultimi anni abbiamo vissuto una così forte crisi del settore agricolo, con prezzi di mercato dei cereali e dei prodotti zootecnici che hanno raggiunto livelli da non coprire il costo di produzione. In questa situazione, purtroppo, molte aziende agricole di aree marginali (di collina e di montagna) hanno abbandonato l'attività produttiva (nel 2000 erano presenti secondo l'Istat 2,5 milioni di aziende agricole, che oggi ammontano a circa 1,7 milioni) e altre aziende agricole hanno «seminato» campi fotovoltaici e/o eolici. Non dimentichiamo poi che la concorrenza del mercato globalizzato, basata sull'importazione di alimenti di qualità discutibile a bassi prezzi, potrebbe essere la causa indiretta di comportamenti illeciti sul mercato del lavoro. Imprenditori senza scrupoli, pur di mantenere un certo livello di redditività, ricorrono a manodopera illegale, non applicano le tutele sindacali eccetera.

Gli ogm sono in grado di rafforzare la nostra agricoltura e il reddito dell'agricoltore? Purtroppo la risposta è negativa, in quanto, con ogni probabilità: se è vero che determineranno un abbassamento dei costi di produzione (cosa tutta da verificare fin tanto che ci sarà separazione di filiera, ovvero l'etichettatura per alimenti ogm e non ogm), è altrettanto vero che favoriranno un abbassamento dei prezzi di mercato dei prodotti agricoli, impedendo così un aumento dei profitti e determinando una perdita di reddito reale per l'agricoltore; brevetto e sviluppo di sementi apomittiche (che producono vegetali geneticamente identici) causeranno la perdita di imprenditorialità per l'agricoltore, che diventerà un prestatore di manodopera per conto di chi detiene il brevetto, in quanto le produzioni saranno attuate sulla base di un «contratto di coltivazione»; faciliteranno l'operazione di delocalizzazione delle coltivazioni agricole, che saranno trasferite nei paesi caratterizzati da un minor costo dei fattori produttivi; determineranno l'abbandono dei territori marginali, che non hanno le potenzialità produttive necessarie a far produrre queste piante (terreno, acqua di irrigazione, clima, ecc.) e non saranno in grado di competere sulla base dei bassi costi di produzione; attraverso strategie di appropriazionismo e di sostituzionismo attuate dall'industria sementiera determineranno una minor utilizzazione, e conseguentemente un minor reddito, dei fattori produttivi solitamente apportati direttamente dall'agricoltore (manodopera soprattutto); aumenteranno la dipendenza del nostro paese nei confronti delle forniture di sementi provenienti dall'estero; determineranno un danno di immagine per l'agro-alimentare nazionale, da tutti conosciuto e copiato per le sue produzioni di eccellenza.

In definitiva, le problematiche relative all'introduzione degli ogm sono notevoli e di portata tale da non giustificare una decisione affrettata. Come per altre innovazioni tecnologiche, se da un lato il tipo di sviluppo attuato in agricoltura in questi ultimi anni, improntato soprattutto all'esasperata ricerca del profitto, ha consentito di massimizzare la produttività dei fattori della produzione, dall'altro non è sempre stato in grado di garantire sia un'equa ripartizione delle produzioni tra le diverse aree del pianeta, sia modalità di produzione compatibili con l'esigenza di salvaguardare l'ambiente e lo sviluppo sostenibile del territorio rurale. A questo proposito si auspica che gli ogm, così come gran parte delle innovazioni tecnologiche introdotte in agricoltura in questo secolo, non siano viste come un ulteriore strumento «necessario» per incrementare la produttività del lavoro, a scapito, ancora una volta, dell'ambiente. Se si parte dal presupposto che occorra incrementare il reddito da lavoro in agricoltura, mantenendo inalterato il salario e abbassando il prezzo di vendita dei prodotti agricolo-alimentari, affinché con motivazioni di tipo ricardiano il consumatore incrementi il suo reddito reale e possa così destinare la parte eccedente ad altri consumi non primari, l'«individuo biotecnologico» diventa strumento fondamentale per attuare tale strategia.

Discorso a parte è quello relativo alla ricerca sugli ogm che, se fatta con le dovute cautele, deve andare avanti. Occorre però considerare che lo sviluppo tecnologico, che non attiene certo al campo della ricerca scientifica, non è neutro e deve sottostare a giudizi economici, politici ed etici. In particolare, prima di una loro introduzione è necessario rispondere ad alcune domande: 1) per quale motivo il nostro Paese, che vanta produzioni alimentari copiate in tutto il mondo (agropirateria), dovrebbe aprire al transgenico se il consumatore non lo vuole? 2) esiste sul mercato un'impresa che vuole iniziare a produrre un bene che il 75% degli acquirenti ha detto di non voler comprare? 3) perché la nostra agricoltura dovrebbe abbandonare una strategia sicura, basata sulla qualità, sulla tracciabilità e sulla sicurezza alimentare, per far posto ad una produzione omologante, sempre meno richiesta dal mercato? 4) potrà competere il nostro paese sul mercato globale sulla base dei bassi costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita o, più realisticamente, potrà competere sulla base di produzioni di eccellenza ad alto valore aggiunto? 5) è eticamente giusto ricercare un aumento del reddito reale attraverso un abbassamento del prezzo degli alimenti, mantenendo così inalterati i salari? 6) è eticamente giusto creare un mercato degli alimenti ritenuti di serie A (biologico, Dop, Igp ecc.) ed un altro ritenuto di serie B (ogm), col pericolo di creare una sorta di proletariato alimentare?

*Università di Scienze Gastronomiche, Pollenzo/Bra (CN)

sabato 28 agosto 2010

"Nucleare pericoloso la Russia insegna"

Parla il direttore di Greenpeace: "Il fuoco non minaccia solo le centrali, ma anche gli impianti che trattano le scorie. Anche un black-out di pochi minuti porterebbe all'emergenza"

di ANTONIO CIANCIULLO
repubblica.it

Oltre alla minaccia terroristica, alla carenza di acqua dolce per il raffreddamento degli impianti e ai costi che s'impennano, per il nucleare arriva ora la grana incendi: lo scenario della Russia di questi giorni ci offre una nuova visione dei rischi legati alle centrali atomiche. Da una parte Chernobyl torna a manifestare i suoi effetti, dall'altra l'assedio delle fiamme attorno agli impianti nucleari rivela una minaccia finora poco considerata.

Come è possibile che, a distanza di 24 anni dalla catastrofe che ha distrutto il reattore ucraino, quella radioattività torni a essere un problema?

"I radionuclidi del cesio emesso nell'esplosione della centrale di Chernobyl si ridurranno a un millesimo solo fra tre secoli", risponde Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace. "Oggi il 60 per cento di quella radioattività è ancora lì, nel terreno e nelle piante: il fumo degli incendi la rimette in circolazione, anche se con un effetto locale, a differenza di quanto avvenne nel 1986, quando la nube radioattiva si alzò per chilometri seminando il suo carico distruttivo in un'area enorme".

Quindi nel conto degli incendi russi dobbiamo mettere anche la contaminazione radioattiva?

" Una parte della nube di Chernobyl è stata rimessa in circolazione. E' un elemento che va ad aggravare un bilancio sanitario già critico, visto che si è parlato di un raddoppio della mortalità a Mosca a causa del fumo degli incendi. Sono aumentati in maniera consistente sia il particolato, creando problemi immediati alla respirazione, che elementi cancerogeni come il benzene".

Altri incendi minacciano le centrali nucleari.
"Non solo le centrali, anche gli altri impianti nucleari. Ad esempio quelli del centro atomico di Mayak, negli Urali, dove c'è un deposito a cielo aperto di scorie nucleari in cui sono stoccate 40 tonnellate di plutonio".

Qual è il rischio?
"Ci sono vari livelli di rischio. Supponiamo ad esempio che le fiamme colpiscano solo le linee esterne di trasmissione della corrente elettrica, i trasformatori. Ebbene la centrale si troverebbe isolata e si dovrebbe procedere a un arresto rapido del reattore, una procedura che comporta sempre una certa dose di rischio".

E' già successo?

"E' successo proprio a Mayak il 3 settembre del 2000. Per venti minuti fu interrotta la fornitura elettrica e lanciato il sistema di sicurezza basato su motori diesel. Quei motori erano in condizione di lavorare solo per 30 minuti, se il problema fosse durato più a lungo si sarebbe entrati in una situazione critica".

Un problema del genere potrebbe riguardare anche gli impianti che il governo Berlusconi vuole costruire in Italia?

"Nel nostro caso si parla di reattori epr per i quali è previsto un tetto di due minuti per circoscrivere un incendio. Quando guardiamo quello che sta succedendo in Russia e pensiamo che con i cambiamenti climatici andrà sempre peggio...."

venerdì 27 agosto 2010

La democrazia dell'acqua e l'economia dei cowboy

La scienziata indiana e la sua lotta per i diritti idrici. "La democrazia si fonda su questo bene comune. La creazione di un mercato non gestito dalla collettività ci riporta al far west. Non possiamo diventare egoisti nell'uso delle risorse della natura"

di VANDANA SHIVA

http://www.repubblica.it/




Ci troviamo di fronte a una crisi idrica globale, che minaccia di peggiorare nei prossimi decenni; e man mano che la crisi si aggrava proseguono gli sforzi per ridefinire il concetto di diritti idrici. Un passo storico è avvenuto il 28 luglio, quando le Nazioni Unite hanno adottato una risoluzione che recita così: "L'acqua è una risorsa limitata e un bene pubblico fondamentale per la vita e la salute. Il diritto a disporre di acqua è indispensabile per condurre una vita dignitosa. È un prerequisito per la realizzazione di altri diritti dell'uomo".

Ma l'economia globalizzata trasforma sempre di più la definizione dell'acqua da proprietà comune a bene privato, da estrarre e rintracciare senza limiti. L'ordine economico globale esige la rimozione di tutti i vincoli, la deregolamentazione dell'uso dell'acqua e la creazione di mercati dell'acqua. I fautori del libero scambio delle risorse idriche considerano i diritti di proprietà privata l'unica alternativa alla proprietà pubblica, e il libero mercato l'unico sostituto della regolamentazione burocratica delle risorse idriche.

L'acqua deve rimanere, più di qualsiasi altra risorsa, un bene pubblico e dev'essere gestita dalla collettività. Nella maggior parte delle società l'acqua era ed è un bene che non può essere posseduto da privati. Testi antichi come le Istituzioni di Giustiniano dimostrano che l'acqua e altre risorse naturali sono beni pubblici: "Per legge di natura queste cose sono comuni all'umanità: l'aria, l'acqua corrente, il mare e di conseguenza la riva del mare...".

L'arrivo delle moderne tecnologie di estrazione dell'acqua ha accresciuto il ruolo dello Stato nella gestione delle risorse idriche. Soppiantando i metodi di autogestione, queste tecnologie hanno inflitto un duro colpo alle strutture democratiche per la gestione delle risorse idriche, che giocano un ruolo sempre meno importante nella conservazione. La globalizzazione e la privatizzazione delle risorse idriche stanno erodendo i diritti della popolazione e la proprietà collettiva si sta trasformando in proprietà delle grandi aziende. Le comunità di persone reali, con bisogni reali, vengono messe da parte nella corsa alla privatizzazione.

La spinta a privatizzare le risorse idriche comuni nasce da quella che io chiamo "l'economia del cowboy": se arrivi per primo in un posto hai il diritto assoluto di stuprare, saccheggiare, inquinare. Non hai nessun dovere verso i tuoi vicini, verso quelli che sono venuti prima di te, verso gli abitanti del luogo o quelli che sono venuti dopo di te. È interessante osservare che gli attuali tentativi di privatizzazione e queste leggi da far west sulle risorse idriche sono visti come un modello dal Cato Institute, un istituto di ricerca della destra americana: "Dalla frontiera occidentale, in particolare dai giacimenti minerari, sono nate la dottrina dell'appropriazione preventiva e le basi della commercializzazione dell'acqua. Questo sistema ha offerto gli ingredienti fondamentali per un mercato efficiente dell'acqua, dove i diritti di proprietà sono ben definiti, rispettati e trasferibili". (T. Anderson e P. Snyder).

La tendenza attuale a estendere l'economia del cowboy a livello globale è la ricetta ideale per distruggere le scarse risorse idriche mondiali e per escludere i poveri dal diritto all'acqua. Dal momento che l'acqua cade sulla terra in modo disomogeneo, dal momento che ogni essere vivente ha bisogno dell'acqua, la gestione decentralizzata e la proprietà democratica sono gli unici sistemi efficienti, sostenibili ed equi per il sostentamento di tutti.

Un elemento fondamentale della filosofia indiana, essenziale per la giustizia sociale, è l'uso accorto e morigerato delle risorse. Secondo un antico testo indiano, le Ishopanishad: "Un uomo egoista nell'usare le risorse della natura per soddisfare i propri bisogni crescenti non è nient'altro che un ladro, perché usare le risorse al di là del proprio bisogno vuol dire usare risorse a cui altri hanno diritto". E come disse con straordinaria concisione il Mahatma Gandhi: "La terra offre abbastanza per i bisogni di ciascuno, ma non per l'avidità di ciascuno".

Oltre lo Stato e oltre il mercato c'è la forza della partecipazione collettiva. Oltre le burocrazie e oltre il potere delle aziende c'è la promessa della democrazia idrica.

(Traduzione di Fabio Galimberti)




SINOSSI:
Un intenso ritratto di Vandana Shiva realizzato da Maurizio Zaccaro durante le riprese in India per il docu-film Terra Madre di Ermanno Olmi. Il documentario prodotto da Cineteca di Bologna e ITC Movie srl, racconta lesperienza del movimento Navdanya di cui Vandana Shiva è ideatrice e promotrice, la sua banca delle sementi per la salvaguardia della biodiversità della produzione agricola. Un nuovo modo di pensare, una conoscenza aperta e integrata, un approccio ai temi dell'ambiente come strettamente connessi allo sviluppo economico e alla lotta alla povertà.
Il nome del movimento Navdanya (che in Hindi significa nove semi) trae spunto dal rituale, molto diffuso nel sud dellIndia, di piantare nove semi in un vaso il primo giorno dellanno. Dopo nove giorni le donne si incontrano e confrontano i risultati, vedendo quali semi si sono comportati meglio; a questo punto si organizzano scambi cosicché tutte le famiglie possano piantare i migliori semi a disposizione. Gli scopi di Navdanya sono la difesa della biodiversità, la creazione di una banca di sementi da scambiare con i contadini che aderiscono al movimento, la riconversione dei campi a unagricoltura interamente biologica. Grazie a questa esperienza, Vandana Shiva è diventata una delle leader mondiali del movimento contro i brevetti sugli organismi viventi.

Il ciclo del combustibile nucleare (uranio, plutonio)

folliaquotidiana

Una parte complessa ma fondamentale della generazione di energia dal nucleare è costituita dal ciclo del combustibile. La sua importanza è dovuta a molte alle caratteristiche stesse della produzione di energia attraverso le reazioni di fissione nucleare.

Le sfide tecniche e tecnologiche sono estremamente impegnative, ed hanno l’obiettivo di rendere l’energia nucleare una fonte sostenibile. Alcuni favorevoli al nucleare affermano che il nucleare sia già un’energia sostenibile, paragonandola addirittura alle fonti rinnovabili e argomentando che, se si sfruttasse tutta l’energia dell’uranio naturale si potrebbero garantire i fabbisogni del pianeta per moltissimo tempo (diversi secoli). E’ bene sottolineare che la sostenibilità del nucleare, se è possibile in linea teorica, si è scontrata con grosse problematiche, tali da far desistere molte nazioni dal percorrere questa via.

Combustibile tradizionale e riciclo del combustibile esaurito

Gli elementi interessanti per i reattori nucleari si distinguono in

  • elementi fissili: possono essere sottoposti a fissione nucleare e possono sostenere una reazione nucleare a catena
  • elementi fissionabili: possono essere sottoposti a fissione nucleare
  • elementi fertili: non possono essere sottoposti a fissione nucleare ma possono trasmutare in materiali fissili

L’uranio naturale è composto per il 99,3% da U-238, che è fissionabile da neutroni veloci ed è fertile, e per lo 0,7% da U-235, che è fissile. Quindi solo l’U-235 sostiene la reazione a catena, mentre l’U-238 contribuisce in misura minore. La fissione di un atomo di U-235 produce due o tre neutroni veloci (ovvero con energia superiore a 0.5 MeV), ma per la fissione dell’U-235 sono necessari neutroni lenti o termici (con energia inferiore a 0.5 MeV). Quindi si impiega un materiale, detto moderatore, che rallenta i neutroni senza assorbirli, diminuendone l’energia.

Il combustibile nucleare è formato per circa il 4% (la percentuale precisa dipende dal tipo di reattore) da U-235 e per il resto da U-238. L’energia generata dalla fissione proviene principalmente dall’U-235 che viene sottoposto a fissione. Ma, durante l’utilizzo, alcuni atomi di U-238 possono assorbire un neutrone lento e diventare Pu-239. Quest’ultimo è fissile, quindi può essere impiegato per la produzione di energia poiché può sostenere una reazione a catena. Un terzo dell’energia generata da un reattore nucleare viene prodotta dalla fissione del Pu-239 “creato” all’interno del reattore stesso. In pratica si può affermare che di tutto il combustibile nucleare inserito nel reattore, solo il 3% dell’U-235 e il 2% del Plutonio trasmutato dall’U-238 crea energia.

Il combustibile esaurito proveniente da un reattore nucleare tradizionale è composto principalmente da U-238 e contiene per il 3% prodotti di fissione dell’U-235 (tipicamente Cesio-137, Stronzio-90, Iodio-129, e altri), per il 2% da prodotti di fissione del Pu-239, per l’1% di Plutonio, di cui metà Pu-239, e un ulteriore 1% di U-235.

combustibile_nucleare

A questo punto, se si utilizza un ciclo del combustibile aperto, il combustibile esaurito deve essere smaltito come rifiuto radioattivo. Se invece si utilizza un ciclo del combustibile chiuso si impiegano degli impianti di riprocessamento del combustibile per estrarre i materiali utili, come l’U-238 e il plutonio.

In questo modo si può ottenere una nuova mescola di materiali fissili che può essere riutilizzata nel reattore per produrre nuovamente energia. Questo combustibile “riciclato” prende il nome di MOX (Mixed Oxide Fuel) ed è composto da circa il 7% di Plutonio e dal 93% di U-238.

combustibile_mox

Problemi

Il riprocessamento del combustibile esaurito e la trasformazione in combustibile MOX viene effettuata in impianti dedicati. La produzione e l’utilizzo del MOX presenta varie difficoltà tecnologiche.

Impiego nei reattori

Non è attualmente possibile utilizzare in un reattore tradizionale solo combustibile MOX, che deve essere impiegato assieme al combustibile tradizionale [1]. Normalmente viene impiegato un terzo di MOX e due terzi di combustibile tradizionale, ma è possibile raggiungere il 50%. I reattori di generazione III+ potranno impiegare combustibile MOX: AREVA afferma che i reattori EPR potranno utilizzare fino al 100% di combustibile riprocessato e degli studi confermerebbero tale possibilità anche per i reattori Westinghouse AP1000.

Rischi relativi al riprocessamento

Il riprocessamento stesso produce dei rifiuti radioattivi a medio (ILW) e basso (LLW) livello, che spesso vengono rilasciati direttamente nell’ambiente senza essere smaltiti in modo appropriato. I siti di Sellafield e La Hague sono stati al centro di aspre polemiche negli ultimi decenni a causa di incidenti e rilasci radioattivi. Ad esempio, uno studio calcola [7] che negli anni ‘90 i rilasci atmosferici di Iodio-129 dei due impianti ammontavano a circa 200 kg annui.

L’impianto di Sellafield, ha sollevato preoccupazioni per lo scarico in mare di rifiuti contenenti Tecnezio-99 a partire dal 1994, data di inizio delle operazioni di riprocessamento del MOX, fino al 2004, quando è stato installato un nuovo sistema di condizionamento degli scarichi a seguito di pressioni internazionali da parte dei paesi scandinavi e dell’Irlanda. Nel 2005 il dibattito si è esacerbato a seguito della rottura di un tubo che ha riversato all’interno di un locale dell’impianto liquidi radioattivi. Tale perdita non è stata notata per 9 mesi.

Anche il sito di Cap de La Hague è stato criticato per le emissioni di materiali radioattivi nei mari e nell’atmosfera.

Rischi relativi allo smaltimento del MOX

Lo smaltimento del combustibile esaurito MOX è molto più problematica rispetto a quella del combustibile esaurito tradizionale [2], poiché contiene maggiori quantità di plutonio. In particolare, sono presenti quantitativi più elevati di Pu-238, Pu-241, Americio, Curio, che comportano maggiori livelli di radioattività e maggiore produzione di calore [2]. Per questo motivo il combustibile MOX esaurito richiede da 3 a 7 volte lo spazio del combustibile esaurito tradizionale [4][6] per distanziare a sufficienza i contenitori e permettere al calore di essere disperso nell’ambiente del deposito. In alternativa, è necessario conservare il combustibile MOX esaurito per 150 anni [4][6] in depositi superficiali per poter raggiungere lo stesso livello di emissioni termiche del combustibile esaurito tradizionale (e quindi poter essere smaltito con la stessa occupazione di volume nel deposito). La minore quantità di rifiuti viene quindi bilanciata dal maggior volume richiesto o dal lungo periodo di raffreddamento in superficie.

Oltre allo smaltimento del combustibile esaurito, dovrebbe essere conteggiato anche lo smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti dal riprocessamento.

Costi

I costi del combustibile MOX sono superiori a quelli del combustibile tradizionale. È stato stimato [3] che i costi del MOX siano pari al triplo rispetto a quelli normali e che, per essere competitivo, l’uranio naturale dovrebbe raggiungere un costo di almeno 400 $/kg (il prezzo massimo raggiunto negli ultimi anni è stato pari a 130 $/kg nel 2007).

Proliferazione

I sostenitori del riprocessamento sostengono che il plutonio recuperato e impiegato per fabbricare il MOX è in grado di resistere alla proliferazione delle armi nucleari. Per comprendere questa affermazione è necessario sottolineare che non tutti gli isotopi del plutonio sono “ottimali” per creare una bomba nucleare. In particolare, il plutonio maggiormente adatto per gli scopi bellici (detto “weapon-grade”) è costituito da una miscela di isotopi composta da oltre il 90% di Pu-239 e da non più del 6% di Pu-240. Il plutonio presente nel MOX è composto invece da circa il 50% di Pu-239, 15% di Pu-241 e da 24% di Pu-240. Questo miscela (detta “reactor-grade”) è meno adatta all’impiego militare e viene impiegata per la produzione di energia per usi civili.

Tuttavia, è possibile costruire una bomba nucleare anche con plutonio “reactor-grade”. Tale ordigno avrebbe una potenza molto inferiore rispetto a una bomba con plutonio “weapon-grade” (si calcola [7] che se la bomba che colpì Nagasaki fosse stata costruita impiegando plutonio “reactor-grade” avrebbe avuto una potenza di 1 kT, invece di 20 kT), ma comunque devastante.

Da questo punto di vista, si è sottolineato il pericolo relativo al furto di plutonio a scopo terroristico. I siti di riprocessamento e i trasporti dei materiali devono essere sottoposti a strettissima sorveglianza [8].

Riferimenti:

[1] World Nuclear Association, “MOX, Mixed Oxide Fuel”, disponibile: http://www.world-nuclear.org/info/inf29.html
[2] International Atomic Energy Agency, "Status And Advances In Mox Fuel Technology", Technical Reports Series No. 415, Vienna, 2003, Disponibile: http://www-pub.iaea.org/MTCD/publications/PDF/TRS415_web.pdf
[3] Richard K. Lester, "The Economics of Reprocessing in the United States", July 12, 2005, Disponibile: http://web.mit.edu/ipc/publications/pdf/The_Economics_of_Reprocessing.pdf
[4] Schneider, M., Marignac, Y., "Spent Nuclear Fuel Reprocessing in France", Research Report No. 4, International Panel on Fissile Materials, Princeton University’s Program on Science and Global Security, April 2008 http://www.fissilematerials.org/ipfm/site_down/rr04.pdf
[5] Schneider, M., Coeytaux, X., Faïd, Y.B., Marignac, Y., Rouy, E., Thompson, G., Fairlie, I., Lowry, D., Sumner, D., "Possible Toxic Effects From The Nuclear Reprocessing Plants At Sellafield (UK) And Cap De La Hague (France)", Luxembourg, November 2001, Disponibile: http://www.europarl.europa.eu/stoa/publications/studies/20001701_en.pdf
[6] Kate J. Dennis, Christopher D. Holmes, Kurt Z. House, Jacob J. Krich, Benjamin G. Lee, Lee T. murray, Ernst A. Van Nierop, Justin Parrella, David M. Romps, Jason Rugolo & Mark T. Winkler, "Should the United States resume reprocessing? A pro and con", The
Bulletin of the Atomic Scientists, November/December 2009, vol. 65, no. 6, pp. 30–41. DoI: 10.2968/065006003, Disponibile: http://romps.org/2009/reprocessing/09reprocessing_paper.pdf
[7] Moran, Jean E., Oktay, S., Santschi, Peter H., Schink, David R., "Atmospheric Dispersal of 129 Iodine from Nuclear Fuel Reprocessing Facilities", Environ. Sci. Technol. 1999, 33, 2536-2542, Disponibile: http://lib3.dss.go.th/fulltext/Journal/Environ%20Sci.%20Technology1998-2001/1999/no.15/15,1999%20vol.33,no15,p.2536-2542.pdf
[8] In Francia il plutonio estratto dal sito di Cap de la Hague viene trasportato per circa 1000 km fino al sito di Marcoule per creare il combustibile MOX

lunedì 23 agosto 2010

Protocollo DI GUERRA


Whistle-blowing website releases video of U.S. Army Pilots begging to kill people on the ground in Eastern Afghanistan in 2007. 12 are killed in the attack, including two employees for Reuters. Its the first time a video like this has been released to the public. Why, then, was Tiger Woods the top story on most mainstream media outlets?

Intervista a Josh Steiber, il soldato che faceva parte del battaglione sia di terra che dei piloti dell'elicottero Apache che il 12 luglio del 2007 trucidò a Baghdad 12 civili iracheni e due reporter. L'eccidio è stato svelato dal video di 38 minuti estratto dal materiale consegnato da Wikileaks al New York Times

Patricia Lombroso

www.ilmanifesto.it

NEW YORK

http://www.facebook.com/note.php?saved&&note_id=147153778639826#!/notes/sayli-vaturu/protocollo-di-guerra/147153778639826

«Il video dell'organizzazione informativa Wikileaks che ha scioccato il mondo tre mesi fa, relativo all'eccidio da parte dei miei commilitoni, piloti dell'elicottero Apache, di 12 civili e di due reporter, a Baghdad, , quel giorno del 12 luglio 2007, segue, né piu né meno, il protocollo militare impartito dai comandi ad alto livello e dal Pentagono. Da portare a termine senza esitazioni da parte dei soldati che lo hanno appreso durante un lento e studiato addestramento a uccidere. Anche i civili. Gli eccidi di quella particolare missione sono chiamati freddamente collateral murder».

Questo dice la sconvolgente testimonianza rilasciata al manifesto da Josh Steiber, in missione in Iraq nel 2007 e ora obiettore di coscienza e fra i tantissimi soldati di «Iraq Veterans Against the War», della quale fa parte dopo il ritorno dalla sua esperienza militare. Steiber era in missione a Baghdad e faceva parte dello stesso battaglione militare di terra e dei piloti dell'elicottero Apache che trucidò 12 civili iracheni e due giornalisti mostrati nel video di 38 minuti: soltanto un frammento della mole di documentazione di Wikileaks rilasciata al New York Times, a The Guardian e a Der Spiegel, finora mai venuta alla luce e già paragonata ai «Pentagon papers» (di Daniel Ellsberg), che si riferiscono alle testimonianze raccolte in Vietnam.

Nell'intervista che ci ha rilasciato, Josh Steiber - proprio come fecero un tempo i soldati del «Winter soldiers» durante la guerra in Vietnam - rivela al mondo la sua macabra esperienza. Simile, peraltro, a quella vissuta in guerra da ogni soldato, in Afghanistan come in Iraq.Lei era in missione in Iraq a Baghdad nel 2007.

Cosa ricorda del cosiddetto «collateral murder» mostrato nel video di 38 minuti da «Wikileaks»?

In effetti facevo parte dello stesso battaglione militare nel contingente di terra proprio quel giorno della missione nella quale i due piloti dell'elicottero Apache trucidarono 12 civili, fra cui alcuni bambini e due reporter, come si vede nei 38 minuti di audio e video di Wikileaks. La cosa ha provocato giustamente scandalo, ma non in modo sufficiente a mettere in discussione la guerra.

Lei conosce i due piloti dell'elicottero che, come emerge dal video, vedendo il carro armato passare sul corpo già morto della bambina irachena gridarono: «così quei bastardi impareranno a portare i bambini in guerra»?

No. Pur facendo parte dello stesso contingente a terra, quel giorno per punizione dovetti restare alla base dato che mi rifiutavo ripetutamente di eseguire gli ordini della missione e non intendevo uccidere innocenti iracheni, così come non avrei ucciso innocenti cittadini in America.

Come descriverebbe questo massacro dei militari nei confronti della popolazione civile inerme in Iraq?

Ho visto con attenzione tutti i 38 minuti del video e ritengo, o spero, che possano suonare come una sveglia per l'opinione pubblica americana: una sveglia sulle conseguenze e l'orrore della guerra, che produce mostri pronti a uccidere. Anche se quanto le dirò non risponde ai miei valori morali, come obiettore di coscienza vorrei aggiungere questo: il video mostra che i piloti risposero così come sono addestrati a reagire. Sono queste le orrende conseguenze del nostro allenamento a uccidere e, del resto, tutte le regole d'ingaggio militare costituiscono un protocollo da eseguire «meticolosamente». È un cruda verità e meriterebbe almeno un dibattito sul contesto che genera le mostruosità intrinseche alla decisione di scatenare una guerra.

Ci spieghi meglio

Le reazioni scioccate che nel mondo sono state seguite ai video resi pubblici da Wikileaks, in cui si mostrano appunto eccidi di civili in Iraq, così come le reazioni generate da ciò che è successo in Afghanistan, sono giustificatissime. Spero che questo tipo di informazione affronti ora i veri problemi sul sistema decisionale adottato ai piu alti livelli militari e politici. I soldati, piu o meno ideologizzati, vengono mandati al fronte con un messaggio: aiutare la popolazione. Ma poi, grazie a una progressiva desensibilizzazione, si trasformano. Del resto, vengono inviati a invadere un altro paese e strumentalizzati per un obiettivo impossibile da ottenere. Il motivo per cui sono, come tanti, contrario alla guerra sta nella constatazione, personalmente verificata, del fatto che ipocritamente inviamo al fronte giovani imbevuti di messaggi illusori e idealistici, ma al tempo stesso li prepariamo a massacrare e a uccidere anche le popolazioni civili.

Come spiega le giustificazioni pubbliche del Pentagono, che definisce questi tutt'altro che eccezionali eccidi come imprevisti «danni collaterali», inevitabili in ogni missione di guerra?

Il Pentagono omette sempre di chiarire che l'addestramento impartito ai soldati, e le regole d'ingaggio trasmesse ai soldati ancora prima di partire per il fronte di guerra, comportano ordini e un sistema di regole interno al protocollo militare in cui si prevedono tecniche e pratiche da eseguire senza farsi prendere da dubbi o da perplessità di coscienza. Quanto viene richiesto va dal semplice arresto alla pratica di sparare e uccidere senza pietà.

Quanto tempo dura l'addestramento di base, sia fisico sia di desensibilizzazione psicologica, impartito ai soldati inviati al fronte?

Dura circa sedici settimane intense e continue. In seguito l'addestramento e le esercitazioni proseguono alla base militare, finchè non si arriva alla partenza per il fronte.

Questo vuol dire che venite addestrati fino a che diventate in grado di uccidere impunemente?

Sì. Il Pentagono, dopo una serie di studi e di ricerche specifiche, ha lavorato sulla psicologia dei soldati, per renderli più pronti a uccidere, perché è stato valutato insufficiente il numero delle morti causate. Il bersaglio che, inizialmente era semplicemente costituito da un cerchio, è stato sostituito da foto e video di persone virtuali, in continuo movimento. Questa lenta procedura rende il soldato pronto a colpire chiunque si configuri come una minaccia, venendo subito identificato come un nemico. Al fronte, lo stato di allerta è permenente, tanto che si pensa solo a come una mossa sbagliata possa mettere a repentaglio la propria vita. E va a finire che questo eccesso di reattività porta a uccidere anche i civili.

Quale altra tecnica viene impiegata dal sistema di protocollo per desensibilizzare i soldati?

Durante le esercitazioni, mentre marciavamo, dovevamo cantare ad alta voce, ripetendo le parole di due canzoni che quasi ci venivano dettate dai comandanti.

Ci vuole ripetere il contenuto di questi canti di istigazione alla violenza?

Sì le faccio un esempio. «Sono andato al mercato dove le donne si recano a comprar cibo/ Ho tirato fuori il mio machete e ho cominciato a tagliarle a pezzi». E ancora: «Sono andato nel parco dove i bambini vanno a giocare/ Ho tirato fuori il mio mitragliatore e ho cominciato a sparare all'impazzata sui bambini». Anche questo fa parte dell'addestramento impartito ai piloti americani dall'elicottero Apache, che ha sparato sui civili.Eppure, questi soldati non hanno subito alcun processo contrariamente al soldato che ha dato a Wikileaks il video...

Perché hanno fatto quanto richiesto dal Pentagono.

Josh Steiber




Wikileaks video shows United States forces firing on journalists and citizens in Baghdad. Josh Stieber a soldier who was in the same company as the men in the video says that he would have been in that video but luckily was not given that duty that day. He goes on to say that the video poses a broader question of is this necessary to spread freedom and democracy.

domenica 22 agosto 2010

Latte di classe. Prossima fermata: Costa Smeralda


SARDEGNA - I pastori bloccano per tre ore lo scalo di Alghero; triplicata in un mese la protesta degli allevatori

Il latte pagato meno di un caffè; e manca una politica di promozione del pecorino
Pietro Calvisi
www.ilmanifesto.it

Sono scesi di nuovo in campo i pastori sardi che da mesi protestano contro le pessime condizioni in cui versa il loro settore. Dopo il blocco degli aeroporti di Cagliari e Olbia e della strada statale Carlo Felice, questa volta è toccato allo scalo di Alghero. Oltre tremila partecipanti, secondo gli organizzatori del Movimento pastori sardi (Mps), hanno chiuso ieri mattina gli accessi all'aeroporto, costringendo centinaia di turisti in arrivo e partenza a muoversi a piedi per qualche chilometro. Disagi per cui i manifestanti chiedono tuttavia pazienza e solidarietà. Tre ore di blocco e tanti slogan indirizzati soprattutto contro i palazzi della regione Sardegna, ma anche verso i sindacati di categoria accusati di immobilismo e di mancanza di proposte utili per superare la crisi. «Una grande e meravigliosa giornata - ha detto Felice Floris, leader dell'Mps - perché oggi abbiamo dimostrato ancora una volta la nostra forza e quanto siano giuste le nostre rivendicazioni». Tanto entusiasmo e tanta passione, commentano altri partecipanti, non si vedevano da anni. Floris ha annunciato poi che il prossimo appuntamento, probabilmente già nella settimana a venire, sarà in Costa Smeralda, a villa Certosa (residenza estiva del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi). «Tra il 5 e il 15 settembre scenderemo a Cagliari per manifestare davanti alla regione - aggiunge - e non andremo via senza risposte soddisfacenti, a costo di accamparci per giorni con le tende».

La protesta dei pastori nasce soprattutto dalla crisi del prezzo del latte, in caduta libera da alcuni anni, che oggi sull'isola varia da 50 a 65 centesimi di euro al litro, mentre nel continente è fra gli 80 e un euro. Poco meno di un caffè o di una bottiglia d'acqua accusano gli allevatori, che criticano il mancato intervento di regione e governo nelle politiche di promozione dei mercati del «pecorino romano» (il latte necessario viene dall'isola). Con l'entrata in crisi delle economie nordamericane, storico bacino di vendita dei loro prodotti, i depositi degli industriali del formaggio sono stracolmi. Ecco il perché del crollo del prezzo del latte. Ma gli industriali sono accusati anche di importare il prodotto dall'estero; spesso latte caprino di provenienza francese, che una volta trasformato viene venduto come formaggio sardo.
Inoltre, spiegano i manifestanti, è assurdo che ad imporre il prezzo sia chi compra (l'industriale) e non chi vende (il pastore). Per sostenere i marchi del Grana e del Parmigiano, a detta dell'Mps, sono stati investiti dallo stato oltre 200 milioni di euro. «Bisogna ridare gli incentivi, che prima esistevano, per il pecorino romano - spiega Diego Manca, allevatore di Bitti (Nu) - e bisogna che governo e regione sostengano la promozione del nostro prodotto verso nuovi mercati come il nord Europa e la Russia». Manca propone anche l'istituzione di «una continuità territoriale, con sgravi fiscali, sia sui prodotti agricoli in uscita dall'isola, che sui mangimi in entrata».
Gli allevatori hanno inviato all'assessore all'agricoltura sardo, Andrea Prato, una piattaforma di 12 punti dove sono spiegate le loro richieste e le proposte. Dalle ultime manifestazioni si capisce comunque che i pastori non vedono più in Prato un interlocutore affidabile, anche se questi ha presentato delle controproposte, rispedite poi al mittente. Tanti gli slogan che ne chiedono le dimissioni e dove lo si accusa di connivenza con la lobby dei caseari, composta da 4 o 5 industriali. Le bordate arrivano anche contro i sindacati, ritenuti ormai poco rappresentativi e sprovvisti di un piano di intervento che salvi la categoria. «Il nostro è il mondo della produzione - accusa Floris - il loro (la Coldiretti, ndr) quello della burocrazia».

Nelle stesse ore dell'iniziativa algherese, la Coldiretti apriva a Cagliari gli stati generali della pastorizia italiana, con annessa manifestazione di qualche centinaio di iscritti che, a bordo di trattori, hanno rallentato il traffico in città. «La vertenza diventa nazionale ed abbiamo fatto fronte comune con Toscana, Sicilia e Lazio - ha spiegato Sergio Marini, presidente della Coldiretti - perché il problema è uguale per tutti, il prezzo del latte non è remunerativo». Come intervento immediato, ha chiesto l'organizzazione, sono necessari 25 milioni di euro da mettere sul piatto per svuotare i magazzini di pecorino romano. Il 30 agosto il piano di proposte completo, ha aggiunto Marini, sarà presentato al ministero delle Politiche agricole.


Sardigna Natzione Indipendentzia ha partecipato con una folta delegazione, senza le bandiere del movimento ma con le bandiere nazionali, in rispetto alla richiesta dei pastori che vogliono evitare forme di strumentalizzazione partitica.

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