mercoledì 8 dicembre 2010

La fine dell’unione

L’Europa ha smesso di essere un progetto vivo e proiettato nel futuro. Ormai è dominata dalle regole dell’economia

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Thomas Steinfeld,

Süddeutsche Zeitung, Germania

L’opinione Il carattere complesso dell’Unione europea, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza della sua contraddizione di fondo

Alla base dell’Unione europea c’è una contraddizione: ognuno dei suoi stati membri, anche la Germania, è troppo piccolo per poter essere competitivo nel mondo globalizzato. Per riuscirci, i paesi europei si sono dovuti unire e hanno dovuto creare un mercato comune per le loro aziende. È una regola che vale per tutti gli stati dell’Ue.

Ogni paese ha rinunciato a una parte della sua sovranità, e lo ha fatto per il suo interesse. In questo modo è nata una comunità in cui i diversi membri sono alleati e allo stesso tempo concorrenti tra loro. Il carattere complesso dell’Unione, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza di questa contraddizione, che per cinquant’anni è sembrata a tutti tollerabile. Questa gigantesca costruzione, però, sembra arrivata alla fine del suo percorso: due stati membri, la Grecia e l’Irlanda, hanno già smesso di essere tali perché ormai sono troppo deboli per restare in piedi da soli. Altri due, il Portogallo e la Spagna, rischiano di fare la stessa fine. È probabile che l’Unione europea non si sfalderà, ma di certo non sarà più quella che conosciamo da cinquant’anni.

Finora l’Europa è sempre stata un’idea: il progetto di una coesistenza costruita accordo dopo accordo, ma che non ha mai perso il suo carattere utopico. Anzi, al di là dei calcoli utilitaristici, sono stati proprio il sogno, i continui riferimenti al futuro, a tenere insieme l’impalcatura europea. Così la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nata nel 1950 per iniziativa di sei paesi, con gli anni si è allargata, attraverso il Trattato di Roma e quello di Maastricht, fino all’integrazione di Romania e Bulgaria nel 2007.

Tuttavia, il progetto più importante – e l’espressione più evidente della contraddizione europea – è stato l’euro: una moneta unica senza un’economia unica. Se oggi si vuole davvero salvarlo, bisogna risolvere la contraddizione di cui abbiamo detto. A questo punto è possibile che l’Europa faccia un passo importante, e fino a poco tempo fa non pianificato, verso l’unione economica. Nella storia ci sono diversi esempi di imprese simili, costate tutte tempo e violenza.

Forse oggi l’Unione europea, sempre più dominata da vincoli e regole, si trova di fronte a uno scenario del genere. Cultura e rivolta Il progetto dell’Europa unita è sempre stato caratterizzato da una certa dose di idealismo. Per questo gli europei hanno sviluppato un rapporto molto stretto con la cultura. Oltre la politica simbolica delle strette di mano tra capi di stato, dei gemellaggi tra le città e della valorizzazione delle radici storiche, anche la produzione culturale ha permesso all’Europa di alimentare una visione unitaria di sé.

Ma quando è stato che questo impulso ha smesso di avere effetti concreti? E perché? È fondamentale notare che oggi questo tipo di politica non basta più a superare la contraddizione di base dell’Unione, che si potrebbe risolvere con la creazione di uno spazio economico comune nel rispetto delle sovranità nazionali. Se la Grecia e l’Irlanda vengono messe sotto tutela, se interi paesi s’impoveriscono perché non riescono a pagare i debiti, allora la vera protagonista dei rapporti tra gli stati europei non è più la cultura comune ma l’economia con le sue regole. Queste regole, che non sono rappresentabili con gli strumenti dell’arte, pongono le basi dell’autoritarismo e delle rivolte individuali.

Il romanzo di Soi Oksanen Purgatorio (2008), il ritorno al leninismo nei testi di Slavoj Žižek e il libro francese L’insurrezione che viene sono già espressioni di una coscienza della rivolta che non fa distinzione tra destra e sinistra perché parla di differenze esistenziali e non politiche, di un “dentro” e di un “fuori”. Le manifestazioni in Grecia e in Gran Bretagna dimostrano che questa rivolta non rimarrà sul piano puramente estetico. Mentre peggiorano le condizioni di vita nei paesi più deboli dell’Unione, ed è sempre più evidente che in futuro si affermerà come soggetto politico sovrano solo chi è in grado di creare ricchezza (cioè pochissimi paesi, tra cui la Germania), le critiche si trasformano in proteste che nessuno ascolta.

Certo, per tanto tempo l’unità europea è stata un progetto civilizzatore e, fatta eccezione per la ex Jugoslavia, da 65 anni in Europa non ci sono più guerre. Ma ormai anche questo progetto sembra in crisi. I greci, che ino a poco tempo fa provavano simpatia per i turisti tedeschi, oggi non nascondono l’astio verso chi gli ha venduto frigoriferi e automobili. I tedeschi, invece, vedono nei greci soprattutto quelli che dilapidano i loro soldi. E gli irlandesi temono che la Germania possa “acquistare” il loro paese. Tutto questo dimostra non solo che l’intero progetto europeo alla fine riguarda soprattutto il denaro, ma che tutti i discorsi sulla cultura comune sono una sovrastruttura ideologica nel senso marxista del termine.

Del resto, non era stato proprio il marxismo ad affermare che l’economia è l’unico potere reale? Oggi molti condividono quest’idea, anche se nel loro pensiero non c’è traccia di marxismo. E i pochi da cui ci si aspetterebbe un giudizio su una situazione molto intricata, come Jürgen Habermas, con le loro critiche sull’“apatia delle élite politiche” forniscono interpretazioni di ordine psicologico. Oggi, però, non possiamo accontentarci di questo. Come un tempo si proponeva di fare la filosoia, dobbiamo formulare un giudizio nuovo sulla nostra epoca. ◆

lunedì 6 dicembre 2010

I catalani scelgono i nazionalisti conservatori.. Trionfo annunciato

El Pais Spagna

I catalani scelgono i nazionalisti conservatori..

Zoom Foto

I nazionalisti di Convergència i Unió (CiU) sono tornati al governo della Catalogna. Visti i risultati, Artur Mas potrà governare da solo o ricorrere ad accordi a geometria variabile, come quelli fatti dal premier José Luis Rodríguez Zapatero al parlamento di Madrid. Il leader di CiU, però, dovrà afrontare una situazione complicata. La crisi, che ha finito per mettere in difficoltà i socialisti, lo obbligherà a fare dei tagli impopolari, e la recessione frenerà parte delle sue iniziative. Tanto per cominciare, prima di prendere decisioni difficili, Mas aspetterà il risultato delle politiche del 2012. In questo modo rimanderà fino al 2013 la proposta di un nuovo accordo economico con il governo centrale.


Per adesso sia i socialisti sia i popolari hanno respinto il patto fiscale proposto da CiU, ma dopo il 2012 le cose potrebbero cambiare. Le posizioni dei nazionalisti catalani rispecchiano la domanda di sovranità che arriva dalla società. Mas ha deciso di non promuovere un referendum per l’indipendenza, ma cercherà comunque di raggiungere degli obiettivi graduali. I catalanisti hanno ricevuto un grande slancio politico anche dalle manifestazioni autonomiste del 10 luglio, organizzate per protestare contro la bocciatura del nuovo statuto catalano da parte della corte costituzionale. Sconfitti ed estromessi dal governo, i socialisti del Psc dovranno invece affrontare un percorso molto diicile. Il leader José Montilla potrebbe abbandonare il parlamento catalano per guidare la transizione del partito dall’interno, anche se ha dichiarato che al prossimo congresso non si ricandiderà alla guida del Psc.


Resta da vedere se i catalanisti daranno battaglia e se la corrente più vicina a Zapatero li seguirà. Secondo i sondaggi, inoltre, il Psc va incontro a una nuova batosta alle comunali di Barcellona. Il rischio è che il partito perda il suo ruolo di cerniera tra la Catalogna e Madrid. La debolezza dei socialisti fa il paio con l’insuccesso di Esquerra republicana (Erc), che ha perso la metà dei deputati. L’avventata proposta di tenere un referendum sull’indipendenza nella prossima legislatura non ha convinto gli elettori, che si sono spostati verso CiU. Gli altri voti persi da Erc sono andati al partito indipendentista di Joan Laporta, Solidaritat: i suoi quattro deputati andranno a formare il gruppo misto con i tre eletti di Ciutadans. Le urne, ifnine, hanno dissipato le preoccupazioni sull’ingresso in parlamento del partito xenofobo Plataforma per Catalunya, che non ha ottenuto neanche un seggio.

El País, Spagna

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Trionfo annunciato

José Antich,

La Vanguardia, Spagna


I risultati delle elezioni regionali del 28 novembre stravolgono la mappa politica della Catalogna e confermano quello che i sondaggi avevano già indicato: il ritorno dei nazionalisti di Convergència i Unió (CiU) al governo della Generalitat e il crollo del Partito socialista catalano (Psc). Dopo sette anni di governo tripartito – guidato dal Psc e nato per allontanare dal potere CiU, che aveva governato la regione dal 1980 al 2003 – il leader nazionalista Artur Mas può tirare un sospiro di sollievo: la traversata nel deserto è finita.

La capacità di resistenza del nazionalismo conservatore, anche nei momenti più difficili della storia della democrazia spagnola, è stata straordinaria. La vittoria di CiU è rappresentata dai 62 seggi conquistati, sei in meno della maggioranza assoluta, mentre il vero sconfitto è il governatore uscente José Montilla.


L’esito del voto segna una svolta nella storia del socialismo catalano, che ha ottenuto il peggior risultato di sempre: 28 seggi e il 18 per cento dei voti. In vista delle comunali di maggio a Barcellona e a Girona, entrambe città governate dal Psc, le prospettive del partito di Montilla non sono confortanti. Gli altri sconfitti sono i due partner del Psc nel governo tripartito, Esquerra republicana e Iniciativa per Catalunya Verds. I popolari, invece, che non hanno mai avuto troppo successo tra i catalani, hanno due motivi per essere soddisfatti: sono di nuovo la terza forza della regione e con 18 seggi hanno ottenuto il miglior risultato di sempre in Catalogna.



El País Numero di seggi

del nuovo parlamento autonomo della Catalogna

CiU (nazionalisti catalani) 62

Partito socialista catalano (Psc) 28

Partito popolare catalano (Ppc)18

Iniciativa per Catalunya Verds 10

Esquerra republicana 10

Solidaritat 4

Ciutadans 3

domenica 5 dicembre 2010

Sardegna, l'isola che affonda

Carlo Lania
ilmanifesto




Qualcuno già la chiama l'isola ciambella, ma il paragone non ha proprio niente di dolce. Ciambella perché la crisi economica sta svuotando da tempo il centro della Sardegna spingendo i suoi abitanti prima verso le coste e poi, se proprio va male, a emigrare oltre il mare, in «continente» o all'estero. Da qui l'idea di una regione che, proprio come il celebre dolce, ha la polpa - il lavoro, la gente, la possibilità di un futuro - tutto intorno e il vuoto al centro. Una situazione resa sempre più pesante dalla crisi che da anni investe le industrie dell'isola e alla quale oggi si è aggiunta anche quella dell'agricoltura con i pastori sardi, soffocati dal prezzo troppo basso a cui sono costretti a vendere il latte, che per la prima volta si organizzano e scendono per le strade scontrandosi con la polizia. Senza parlare del turismo, ricchezza stagionale che però non incide sul Pil sardo per più del 7%. «La rivolta dei pastori è solo l'ultimo segnale, il classico campanello d'allarme. Se continua così il futuro rischia di essere molto ma molto pesante per la sopravvivenza stessa della Sardegna», dice visibilmente preoccupato Ignazio Ganga, segretario della Cisl di Nuoro, una delle province maggiormente colpite dalla crisi. Gli operai dell'Alcoa e quelli della Vynils di Porto Torres, divenuti ormai famosi per per aver trasformato l'Asinara nell'isola dei cassintegrati, sono infatti solo la classica punta di un iceberg sotto il quale disoccupazione, abbandono scolastico ed emigrazione sono all'ordine del giorno. Una situazione che preoccupa fortemente anche gli industriali ma di fronte alla quale la Regione Sardegna guidata da Ugo Cappellacci sembra incapace di reagire.

Ex fabbriche oggi centri commerciali
A girarla d'estate, con le spiagge affollate e i traghetti che sfornano ogni giorno decine di migliaia di turisti, la Sardegna sembra tutto tranne che una regione sull'orlo del collasso. Basta però lasciarsi alle spalle i villaggi turistici e addentrarsi un po' nell'entroterra oppure nelle aree storicamente a tradizione industriale come il Sulcis, perché il paesaggio cambi brutalmente. Al posto degli stabilimenti balneari ci sono altri stabilimenti, ex capannoni industriali ormai da tempo abbandonati alle erbacce in mezzo a strade scarsamente illuminate e piene di buche, oppure trasformati in centri commerciali. Sono il quadro di una disfatta rappresentata dalla fuga delle imprese straniere che pure in passato avevano scelto di investire sull'isola. Non a caso, quando devono dare i numeri dell'attuale crisi, i sindacati non esitano a parlare di un vero bollettino di guerra. «A livello regionale oggi contiamo 214.000 disoccupati, oltre a 90 mila precari, il che fa segnare un tasso di disoccupazione regionale sempre in salita e che oggi si attesta al 16,1% - prosegue Ganga -. Si tratta di cifre terribili, che evidenziano come in Sardegna una famiglia su cinque, pari al 18%, ha avuto almeno un componente che ha perso il posto di lavoro».

Eppure non è stato sempre così. In passato l'isola ha rappresentato un punto di interesse notevole per chi, anche dall'estero, era interessato a fare investimenti. A favore dei sardi giocavano alcuni fattori determinati come, ad esempio, l'assenza sull'isola di una malavita organizzata tipica di altre regioni del sud. «Ma anche grandi spazi a disposizione per la costruzione degli impianti, una collocazione strategica nel Mediterraneo e per di più con la possibilità di poter contare a Cagliari di un porto merci secondo solo a quello di Gioia Tauro. Per non parlare di una manodopera molto spesso altamente specializzata e di una superstrada, la Carlo Felice, non sottoposta ad alcun pedaggio», spiega Ganga. Tutti elementi che facevano pendere la bilancia a favore di futuri investimenti ma che col tempo nulla hanno potuto contro due fattori decisamente negativi come il costo dei trasporti gomma-nave e i costi dell'energia. Due croci per le imprese, che hanno cominciato a disinvestire. Un processo che sembra inarrestabile. Qualche esempio? La Unilever è una multinazionale agroalimentare olandese specializzata nella produzione di gelati (compresi marchi famosi come Algida). Un anno e mezzo fa ha chiuso lo stabilimento di Cagliari e trasferito la produzione prima nel napoletano e in seguito, pare, in Turchia. L'impianto, moderno ed efficiente, è stato smontato e portato via dall'isola. Dove invece sono rimasti e finiti in mobilità 120 operai più altri 250 con contratto a tempo determinato. La stessa cosa l'hanno fatta i danesi del gruppo Rokwool che a Iglesias producevano isolanti termici (lana di vetro). Anche in questo caso si trattava di un impianto all'avanguardia che negli anni non ha mai avuto né dato problemi. Nonostante questo nell'estate di un anno fa il gruppo decide di interrompere la produzione, smantellare l'impianto e trasferirlo in Serbia. Risultato: 120 operai diretti più altri 80 dell'indotto finiscono in mobilità. Ancora: l'Euroallumina, del gruppo russo Rusal, il secondo al livello mondiale per la raffinazione dell'alluminio. Stavano a Portoscuso, nel Sulcis, quando nel marzo del 2009 decidono di chiudere. Il motivo: i costi troppo alti. Lo stabilimento chiude ufficialmente il 19 marzo del 2009 mettendo in cassa integrazione in deroga i suoi 400 operai più altri 300 metalmeccanici impiegati nell'indotto. E si potrebbe continuare.

Se però si vuole capire cosa rappresentano davvero le dismissioni industriali per la Sardegna bisogna andare nella piana di Ottana, nel nuorese. Le due torri di quello che una volta era il petrolchimico dell'Enichem svettano nel cielo come un monumento alla crisi. Se non fosse per il nucleo di industrie che eroicamente resiste proprio nell'ex area del petrolchimico le due ciminiere sarebbero come una gigantesca porta sul vuoto. Negli anni '80, periodo di massimo sviluppo dell'area, al petrolchimico lavoravano 2.756 operai, più un altro migliaio impiegato nell'indotto tra lavori di manutenzione e appalti (oggi in tutto sono appena 352), tutti residenti nei paesi che si affacciano nella pianura. Il primo colpo serio all'occupazione lo assesta la crisi petrolifera, poi è tutta una discesa fino ai primi anni '90 quando l'Enichem comincia le prime dismissioni e vende pezzi dello stabilimento a privati. Nel tentativo di mettere un argine alla crisi nel 1998, con il governo Prodi, si dà avvio ai contratti d'area che grazie soprattutto a un finanziamento pubblico di 300 miliardi di vecchie lire porta nella zona 29 nuove imprese. «Un'esperienza durata pochi anni e che oggi ha strascichi giudiziari, con molte aziende sotto inchiesta», racconta Salvatore Ghisu, presidente del consorzio industriale di Ottana e sindaco di Borore, uno dei paesi della piana. Delle 29 imprese arrivate attratte dai finanziamenti, solo due o tre sono ancora attive, e non a caso si tratta di ditte locali. Per il resto i finanziamenti hanno fatto gola soprattutto ad alcuni gruppi del nord Italia che, chi in perfetta buona fede e chi no, hanno deciso di approfittare della situazione. «Chi è venuto n Sardegna lo ha fatto soprattuto per tre motivi», spiega Ignazio Ganga. «C'è chi è venuto, ha costruito l'impianto e poi ha smontato tutto e portato i macchinari al Nord. Oppure c'è chi ha tentato il passaggio da artigiano a piccola impresa industriale. Infine c'è chi ha tentato un vero investimento che, salvo rare eccezioni, si è rivelato un fallimento. Il risultato è che la maggior parte di queste aziende non ha retto la sfida industriale».

Oggi, a pochi anni di distanza dalla fine di quell'esperienza, la piana di Ottana è dominata da una sfilza di capannoni abbandonati al loro destino, al punto da rappresentare un vero cimitero industriale.
Non tutto però è negativo. A resistere come un fortino assediato in mezzo ai 1.700 ettari dell'area industriale di Ottana c'è infatti un piccolo nucleo di aziende decise a combattere la crisi.

Un ex bocconiano a Ottana
Una parte del petrolchimico è stato infatti venduta dall'Enichem a Paolo Clivati, un giovane imprenditore lombardo che oggi, in società con la thailandese Indorama ha dato vita alla Ottana Polimeri, azienda addetta alla lavorazione del Pet. Qui si producono le bottiglie di plastica usate, per fare un esempio, dalla Coca Cola, ma anche i vasetti per gli yogurt della Danone. Da poco Clivati, un ex bocconiano trasferitosi in Sardegna, ha ricominciato ad assumere, anche se, spiegano i sindacati, in realtà si limita a riassumere i figli degli operai che vanno in pensione. Sempre Clivati è proprietario dell'ex centrale elettrica dell'Enichem e in società con la municipalizzata energetica di Bolzano e Merano lo scorso 16 marzo ha firmato un accordo con la regione Sardegna per la realizzazione a Ottana del polo delle energie rinnovabili, che prevede tra l'altro anche la realizzazione di due parchi a energia solare, uno fotovoltaico classico e uno con la tecnologia solare termodinamica, la stessa sperimentata proprio in Sardegna dal premio Nobel Carlo Rubbia che poi l'ha però realizzata in Spagna. Infine ci sono gli americani di Lorica, una multinazionale specializzata nella lavorazione di pelli sintetiche. Sono loro, sempre per fare un esempio, a produrre il tessuto per la tuta di Valentino Rossi, mentre recentemente hanno incassato una commissione per la produzione di 11 sellerie destinate alla Ferrari. Imprese di prestigio, che da sole non bastano però a cambiare la situazione. «Se non ci fossero loro il tentativo di risalire la china sarebbe disperato», ammette Ghisu che come consorzio industriale sta lavorando con la confindustria nuorese a un progetto (non a caso chiamato «Fenice») che prevede incentivi alle imprese che decideranno di tornare a investire nella piana di Ottana. «Un progetto serio - ci tiene a precisare Ghisu - destinato agli imprenditori intenzionati a entrare nei vecchi stabilimenti creati e abbandonati negli anni scorsi». Anche in questo caso sono previsti dei finanziamenti ma minimi, proprio per evitare il ripetersi di quanto accaduto con i contratti d'area. «Si valorizzeranno alcuni aspetti - assicura Ghisu - per rendere l'area di Ottana più competitiva attraverso una politica di agevolazioni che abbatta i costi di energia e trasporti».
E nel frattempo? Nel frattempo si tira la cinghia sperando che la crisi attenui i suoi colpi. Perché gli effetti sociali provocati fino a oggi sono devastanti. Su una popolazione di 1.600.000 abitanti, circa 400.000 vivono sotto la soglia di povertà, che equivalgono a circa 100.000 famiglie (dato Istat 2009). Per quanto riguarda il ricorso alla cassa integrazione, solo nel nuorese tra il 2007 e il 2008 c'è stato un aumento del 38% delle richieste che sono così passate da 960.000 ore a 2.600.000. La stessa cosa è avvenuta tra il 2009 e il 2010. Questa volta l'aumento è stato del 32% e le ore di Cig sono passate da 2.600.000 a 3.432.000, il 40% dell'intero plafond di ammortizzatori sociali destinati alla Sardegna. Ma l'aspetto più drammatico è rappresentato forse dai dati sull'emigrazione. A fuggire dalla Sardegna non sono infatti solo le imprese straniere, ma gli stessi sardi, specie i più giovani. 15.000 persone in meno fra il 2001 e il 2008, pari al 9% dell'intera popolazione secondo l'Istat, che attribuisce la scelta di andare via a un mix di fattori come la paralisi di ogni attività economica, il tasso di natalità ridotto quasi a zero, l'assenza di lavoro, la chiusura e il ridimensionamento dei presidi pubblici, l'esodo verso altre zone dell'isola. «In pratica è come se in questi ultimi anni fossero scomparsi tre piccoli comuni», commenta amaro Ganga. Nella provincia di Nuoro gli abitanti in meno sono 5.148, di cui 3.150 sono emigrati negli ultimi quattro anni.
Interi paesi, che spesso non hanno più di 1.000-2.000 abitanti. hanno visto andare via i propri giovani senza possibilità di fermarli: in otto anni Macomer ha perso 363 abitanti, Orune 352, Bolotana 337, Bitti 332, Desulo 331. E nelle altre province, sempre secondo i dati Istat, non va meglio, con il Sassarese che ha perso 3.406 residenti, la provincia di Oristano 3.083, quella di Cagliari 1.093, l'Ogliastra 997, il Medio Campidano 749, Olbia/Tempio 345, il Sulcis -Iglesiante 215.
«Siamo un sistema ingessato dal collasso del sistema produttivo», dice sconsolato Giovanni Matta, segretario regionale della Cisl. «Nell'industria e non solo. L'agricoltura è indebitata per il 50% della sua capacità produttiva, il turismo nonostante i proclami non va oltre il 7% del Pil regionale e il grosso dell'occupazione è determinato dai servizi, pubblica amministrazione in testa».

«La Regione? Incapace a reagire»
Di fronte a tutto questo la Regione Sardegna sta a guardare, apparentemente incapace di reagire alla crisi. Eppure non sarebbero certo i soldi per gli investimenti che mancherebbero. Il 3 agosto del 2009 è stato firmato il piano attuativo regionale che avrebbe permesso di utilizzare 2,350 miliardi di euro da investire in infrastrutture. Tremonti però non ha mai messo i soldi e adesso il ministro Fitto chiede che il piano venga rimodulato. Allo stesso modo restano fermi 2,3 miliardi di euro di fondi europei e 1,2 miliardi di euro del Piano per lo sviluppo rurale (Prs). Soldi che potrebbero essere utilizzati per rilanciare l'economia dell'isola e che invece rischiano di andare persi. Il futuro è affidato alla costruzione del gasdotto che dovrebbe portare il gas dall'Algeria alla Toscana attraversando tutta la Sardegna. Un progetto importante, che potrebbe ridurre notevolmente i costi energetici ridando ossigeno e nuove speranze di sviluppo all'industria nazionale e straniera. Peccato che i tempi di realizzazione, previsti inizialmente per il 2012, siano già slittati al 2015. «La regione è in liquidazione», denuncia Matta. «Siamo in mano a una classe dirigente che non riesce a esprimere un obiettivo verso cui guardare. Negli anni 50 e 60 l'obiettivo era trasformare una società agricola in industrializzata, e in parte è stato centrato. Oggi invece si fa difficoltà a concordare una visione unitaria per la Sardegna che ha bisogno impellente di integrarsi con il modello nazionale. Il pegno, altrimenti, è di essere condannati alla marginalità».

MILA disoccupati, ai quali vanno aggiunti altri 90 mila precari. Su una popolazione di 1.600.000 persone. E un tasso di disoccupazione che tocca il 16%

giovedì 2 dicembre 2010

Sì a «Black Shark», ordigno da 87,5 milioni


ilmanifesto.it/
di Manlio Dinucci
Chi ha detto che le fabbriche sono in crisi e che il governo non fa niente? La Wass di Livorno va a gonfie vele: negli ultimi tre anni ha assunto cento persone, tutte altamente specializzate, portando il totale a 500, più 1000-1200 nell'indotto. La Wass (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei del Gruppo Finmeccanica) ha stabilimenti anche a Genova e Pozzuoli e unità di lavoro a La Spezia e Taranto. I suoi prodotti sono molto richiesti anche all'estero: l'azienda ha clienti in 38 paesi. Il fiore all'occhiello della Wass è il Black Shark (Squalo Nero): un sofisticato siluro pesante di ultima generazione. La crisi non ha colpito la Wass - spiega la nota di bilancio - perché «operando con enti governativi non abbiamo risentito della congiuntura negativa». In altre parole, perché il governo italiano, come quelli di altri paesi, mentre taglia le spese in tutti i settori civili, continua ad aumentare la spesa militare, acquistando (col denaro pubblico) nuovi armamenti e creando nuove infrastrutture militari. La Commissione difesa della Camera ha appena approvato, dopo quella del Senato, l'acquisizione del nuovo siluro pesante per sommergibili U-212A. Si tratta di una evoluzione dello Squalo Nero, prodotta dalla Wass a un costo stimato di 87,5 milioni di euro (che, come di solito avviene, alla fine risulterà maggiore).Grazie a questa maxi-commessa la Wass potrà potenziare la ricerca e sviluppo. A tal fine ha stipulato un accordo con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, il cui Centro di ricerca sulla robotica marina si è insediato allo Scoglio della Regina a Livorno, grazie ai finanziamenti europei dei Piuss (Piani integrati di sviluppo urbano sostenibile) ottenuti dal Comune. La convenzione - stipulata nel dicembre 2009 tra il Comune di Livorno, la Scuola Sant'Anna e la Wass - stabilisce che la Scuola mette a disposizione della Wass le proprie conoscenze e attrezzature scientifiche, mentre la Wass mette a disposizione della Scuola i propri laboratori e impianti di sperimentazione. In tal modo, avvalendosi della ricerca universitaria, la Wass può produrre armamenti ancora più sofisticati. E, fornendo un contributo finanziario alla Scuola Sant'Anna, dà impulso ad altre ricerche utilizzabili per applicazioni militari, mentre in generale si stanno riducendo i finanziamenti pubblici all'università e alla ricerca. Grazie a questa convenzione, ha dichiarato il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi (Pd), i saperi si intrecciano finalmente con l'industria, facendo fare alla nostra città un nuovo salto di qualità che la proietta nel futuro. Sarà quindi ora orgoglioso che l'industria bellica Wass, forte dei saperi della Scuola Sant'Anna, fabbricherà a Livorno nuovi e ancora più micidiali siluri pesanti. Essi sono solo una parte della lista della spesa approvata dalle Commissioni difesa di Camera e Senato. Essa comprende, oltre ai siluri pesanti, una unità navale di supporto subacqueo per incursori (125 milioni di euro), un sistema di acquisizione obiettivi controcarro (200 milioni), mortai di nuova generazione (22 milioni), dieci elicotteri (200 milioni), una nuova rete di comunicazioni Nato (236 milioni) e l'Hub militare di Pisa (63 milioni). In totale, circa 934 milioni di euro, che sicuramente lieviteranno. Fondi che saranno ricavati attraverso nuovi tagli alle spese sociali, compresi i contributi pubblici all'editoria, la cui drastica riduzione rischia di far tacere anche la nostra voce. Lo Squalo Nero è già stato lanciato per affondarci.

LE INDUSTRIE DI MORTE SONO SEMPRE MOLTO ATTIVE ECONOMICAMENTE E MAI IN DEFICIT, LA CRUDELTA' UMANA NON HA FINE, E I GOVERNI CHE USANO TALI ARMI SONO INDECENTI E ANTIETICI, QUESTO SONO LA MAGGIORANZA DEGLI STATI MONDIALI E PER QUESTO MERITANO DI ESSERE DISTRUTTI, ELIMINATI PER SEMPRE!!
Immagine: MU90/Impact ALWT

Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (WASS) è azienda leader a livello mondiale nel settore dei Sistemi Subacquei, riconosciuta per la sua eccellenza nell'Ingegneria dei Sistemi Integrati.

Prendendo il nome dall'inventore del siluro Robert Whitehead, la Società è entrata a far parte di Finmeccanica dall'inizio dell'anno 1995.
WASS, con stabilimenti a Livorno, Genova e Napoli, impiega ingegneri altamente qualificati che sono responsabili della progettazione, sviluppo, produzione e marketing dei propri prodotti:

  • Siluri Pesanti : BLACK-SHARK e A184 Mod.3
  • Siluri Leggeri : MU90 e A244/S Mod.3, tramite la propria partecipazione (50%) nel consorzio EuroTorp assieme a DCNS (26&) e Thales (24&)
  • Sistemi di Contromisure Anti Siluro per Sommergibili e Navi di Superficie
  • Sistemi di Sorveglianza Subacquea e Sonar


I prodotti WASS sono stati selezionati e messi in servizio da svariate Marine di tutto il mondo.
In particolare, il Siluro Pesante di ultima generazione, il BLACK-SHARK, vero e proprio fiore all'occhiello della Ditta, è già stato integrato con pieno successo a bordo di una vasta gamma di sommergibili equipaggiati con diversi tipi di Combat Systems.

Più di 100 siluri sono in fase di produzione e di consegna per varir importanti Marine distribuite in tre diversi continenti.

Inoltre, grazie ad un Dipartimento di Supporto Logistico dedicato, WASS fornisce, a costi competitivi, un efficace e completo supporto tecnico post-vendita in grado di soddisfare i bisogni specifici di ogni singolo cliente per tutta la durata operativa dei Sistemi.

lunedì 29 novembre 2010

IL FUTURO HA MARCIATO AL MIO FIANCO

“Agisci come se già fossi libero”
- P.L.Wilson -



Paola Alcioni SA CANTADORA

IL FUTURO HA MARCIATO AL MIO FIANCO



Valentina.....

Si amici miei, il futuro ha marciato al mio fianco nella Prima Giornata Per l’Indipendenza della Sardegna.
Sotto la pioggia, accanto a me.
Il suo nome è Valentina, il suo nome è Giovanni.

Si dice che la poesia o la letteratura in genere, nascano da un ripiegamento doloroso, e che non si abbia invece tempo per la scrittura, quando ci si gode una gioia.
La si gode e basta.
Vero, ma... svanita l’adrenalina, il dopo si nutre di nuovo di parole, perché la gioia non è gioia fino in fondo se non la raccontiamo a noi e agli altri, verbalizzando, riprendendoci trionfalmente in mano il diritto di nominazione.
La mia gioia, sabato, potevo chiamarla col nome dei molti amici che ho abbracciato, alcuni venuti da lontano, altri da molto lontano, pro sa Die de s’Indipendentzia.
Altri ancora da lontanissimo.
O con il nome di coloro che fisicamente si sono affaccendati intorno all’organizzazione della Marcia qui, o che lo hanno fatto collaborando da lontano, ma efficacemente.
Cari, carissimi amici tutti: niente unisce più di una condivisione di questo segno. Niente affratella più di un ricordo come questo. Nessuna semina può fare a meno di due mani che si stringono.
Perché l’unità è il lievito che la nostra gente aspetta per poter impastare il “Pane di via”, che serbato “in bértula” accompagnerà la nostra transumanza definitiva verso la libertà.

Grazie, grazie a tutti, mi viene da dire ora.
Ma in realtà è la mia terra che ringrazia...

Est sa terra mia Sardìnnia chi torrat gràtzias, pesendi artus is burtzus suus incadenaus e a pustis torrendi a s’abetu e a su dolu, fintzas chi s’at a imberiai su tzérriu: “Sardìnnia...” “Lìbera!!!” chi at acumpangiau dònnia passu de sa Màrcia e chi tambeni s’arretumbat in s’ànima e in su sànguni.

E a lungo, a lungo risuonerà quel grido e quell’emozione, dentro tanti di noi.

Potevo chiamarla con mille nomi, la mia gioia, sabato.
Ma oggi a voi la racconto con il nome di Valentina e Giovanni, perché devo a loro un’emozione grande che mi ha spalancato l’anima.

Quando sono arrivata al piazzale della Fiera, Giovanni l’ho trovato intento ad allestire il camion, che inalberava quattro grandi bandiere della nostra Natzione.
Riservato come sempre, mi è venuto incontro per un abbraccio, ma si vedeva che era concentrato, che stava prendendo tutto molto sul serio, ma che se lo stava anche godendo, come un momento importante.

Quando Valentina, la mia giovanissima patriota, ci ha raggiunto, non era attesa.
Ma nella gioia dell’abbraccio che ci ha unito, era contenuto un lunghissimo discorso di speranza.
A tutti, in misura più o meno grande, la decisione di venire a questa marcia è costata.
Ciascuno di noi ha dovuto vincere resistenze, difficoltà oggettive, ostilità e circostanze non facili.
Per alcuni è stata una decisione veramente sofferta.
Per altri un luminoso momento di presa salda sulle redini del proprio destino.

Valentina e Giovanni sabato, per me, erano il simbolo di tutti noi che eravamo alla marcia, ed era anche la dimostrazione che i nostri limiti e le difficoltà possono essere superati se ci rendiamo conto di possedere in noi stessi una risorsa grande che si chiama libertà.

Così come - in fondo - chi mancava senza giustificato motivo, era simbolo di quella parte di popolo che aspetta gli ordini, di quella che non rinuncia alle comodità, di quella che non si mette in gioco e che pensa al suo orticello; di quella dallo sguardo corto e dalla supina convinzione che delegare è bello, senza sapere che il meccanismo della delega è assolutamente apocrifo all’idea di democrazia assoluta; di quella dell’ossequio ad un vertice, del capo chino, dello sguardo fisso al solco segnato dall’aratro altrui.

Ma noi abbiamo marciato anche per quella parte della nostra gente; mai contro quella ma – ahimé – nonostante quella.

In quel momento Giovanni, Valentina ed io non ce ne rendevamo conto, ubriachi per la gioia di esserci. Ma in realtà un testimone, in quell’attimo, è passato di mano.
Perché io ho portato alla Marcia lo striscione nel quale era contenuta l’affermazione di principio che ha guidato tutto il mio agire fin’ora.
Ma loro la stavano mettendo in pratica.
Perché Valentina, marciando al mio fianco, stava già agendo come se fosse libera; stava decidendo per sé stessa; stava usando del diritto di autodeterminarsi, e lo stava portando con sé come una bandiera.
Perché Giovanni, decidendo di esserci e dare una mano, ha agito come se la cosa lo riguardasse, lo riguardasse direttamente.

Sono orgogliosa d’aver lavorato per questa Marcia.
In un prossimo articolo, parlerò di ciascuna delle meravigliose persone che ho conosciuto in questa meravigliosa esperienza di condivisione.

Sono orgogliosa d’aver avuto intorno gente che ha agito come se già fosse libera.
Ma ancor più, lo sono per avere avuto al fianco due giovani che non si fermeranno là dove i miei passi dovranno purtroppo fermarsi, perché le foglie devono cadere, in autunno, per divenire humus e senso di nuove fioriture.

Ma non si fermeranno, po bona sorti, Valentina e Giovanni. E insieme a giovani come loro, porteranno le speranze nostre per questa terra e per la mia gente oltre, verso il futuro.

“SARDINNIA...”
“LIBERAAA!!!!”
Sa Cantadora


Giovanni


Vaturu

La fucilazione di Efisio Tola che leggeva «libri sediziosi»

Manlio Brigaglia

ilcorriere

La primavera del 1833. Il re savoiardo ordinò la repressione: in pochi mesi 67 arresti e 12 esecuzioni

Il luogotenente «alto e bello di statura» che sfidò la morte

La primavera del 1833. Il re ordinò la repressione: in pochi mesi 67 arresti e 12 esecuzioni

La fucilazione di Efisio Tola che leggeva
«libri sediziosi»

Il luogotenente «alto e bello di statura» che sfidò la morte

Chambéry, capoluogo della provincia della «Savoia propria», 12 giugno 1833. Alle ore cinque del pomeriggio viene fucilato il luogotenente del reggimento di fanteria di Pinerolo, Efisio Tola. Sassarese, «bello e alto di statura », 30 anni compiuti da meno di un mese, è stato condannato a «morte ignominiosa » per «aver avuto tra le mani — dice la sentenza—libri sediziosi, avuto conoscenza di complotti sediziosi e non averli rivelati ai superiori, aver comunicato i detti scritti sediziosi ad altri militari e cercato di procurare partigiani ai suddetti complotti». In realtà, quei complotti sono i progetti «rivoluzionari » intorno ai quali si sono raccolti, nelle principali città degli Stati di Terraferma del Regno di Sardegna (Torino, Genova, Alessandria, Chambéry), piccoli gruppi di giovani patrioti. Tutti toccati dalla propaganda che Mazzini fa, spedendo d’oltre confine stampati, volantini, opuscoli, copie della rivista La Giovine Italia che ha cominciato a stampare a Marsiglia. «Quanti potevano leggerli s’affratellavano», scriverà con orgoglio l’Apostolo nei suoi Ricordi. Quali di questi testi abbia letto e fatto circolare l’ufficiale sardo non si sa; gli atti del processo, celebrato davanti a un tribunale militare, sono fortemente sintetici: i giudici tagliano dritto, non lasciano parlare l’avvocato difensore, ascoltano solo i testimoni d’accusa.

L’accusato, a dire la verità (almeno per come appare negli atti) si era difeso piuttosto blandamente. Alla sentenza, rivolto ai giudici, aveva affermato: «Voi versate un sangue innocente, ma io insegnerovvi come si debba e si sappia morire». E prima della fucilazione: «Né reo son io, né complici ebbi giammai: e se pur ne avessi né il nome sardo né il nome mio farei prezzo di tanta infamia e di tanta viltà». E davanti al plotone d’esecuzione — dice la leggenda della sua vita, più volte raccontata nei tanti libri ottocenteschi sui «martiri della libertà»—si era aperta la camicia per offrire il petto alla scarica.

I «Primi martiri della Giovine Italia». Il primo a sinistra, dal basso, è Efisio Tola
In effetti, Efisio Tola è vittima di un’azione repressiva, durissima e dunque anche cieca, espressamente ordinata dal re in persona. Voci sulla presenza di mazziniani nel regno già erano cominciate a circolare, ma la scoperta che erano quasi tutti militari è stato uno choc: per questo le inquisizioni e i processi hanno per teatro le città dove ci sono caserme e guarnigioni militari. In pochi giorni di quella primavera ci saranno 67 arresti, 12 condanne a morte eseguite, 14 in contumacia (compresa quella di Mazzini), centinaia di anni di carcere. Dei sospettati un paio di centinaia sono riusciti a rifugiarsi all’estero, ma due dei patrioti, i genovesi Jacopo Ruffini e Antonio Boggiano, si sono suicidati per non parlare. Questi uomini non sono solo il primo consistente nucleo di mazziniani italiani, sono anche i primissimi caduti della lunga lotta per l’Italia unita e indipendente dallo straniero (e possibilmente repubblicana).

Efisio Tola appartiene a una famiglia di non grande, ma antica nobiltà: un lontanissimo antenato si era coperto di gloria, quando la Sardegna era spagnola, combattendo sotto le mura di Granada. Una sua discendente avrebbe sposato il medico Francesco («Zizzu») Maria Cossiga, nonno del futuro presidente della Repubblica.

Mazziniani: il secondo seduto da sinistra, Filippo Garavetti, più volte deputato (foto della Biblioteca del Comune di Sassari)
Che ci teneva a sottolineare questa parentela, superando un po’ dell’imbarazzo che gli veniva dal dovere ricordare Efisio insieme all’altro suo fratello, Pasquale, alto magistrato, storico insigne, rettore dell’Università di Sassari, più volte deputato: ma deputato della parte più reazionaria e retriva della città. Il 1848 fu anno dei portenti anche a Sassari: gli studenti cacciarono i Gesuiti dall’Università e partirono per la guerra. Su 86 volontari della provincia, che era allora metà Sardegna, 61 erano sassaresi, ha ricordato Sandro Ruju, cui dobbiamo una serie di saggi sui «padri» della tradizione repubblicana cittadina. Sino a quell’anno Pasquale Tola aveva cercato di far dimenticare che era fratello di Efisio: da quell’anno se ne fece una bandiera, scrivendo anche — sotto pseudonimo — un commosso elogio di lui. Col risultato che sul suo nome accadde spesso ai giovani sassaresi di dividersi e scontrarsi: quando il Circolo (repubblicano) «La Gioventù» decise nel 1880 di porre una lapide in ricordo di Efisio sulla facciata della casa dei Tola si stava dipanando stancamente l’iniziativa di erigere un monumento a Pasquale: ci si sarebbe riusciti solo nel 1903.

Enrico Berlinguer, nonno del segretario del Pci
Ma mazziniano non era stato solo Efisio. «A Sassari l’avvocato Soro Pirino, influentissimo, è nostro—scriveva Mazzini nell’agosto del 1860—: gli si parli amio nome». Gavino Soro Pirino, classe 1830, fu lungo tutto l’Ottocento il Grande Vecchio del repubblicanesimo sassarese. Il più coerente e anche il più intransigente, fino a farlo entrare in rotta di collisione politica con i più importanti avvocati della città, tutti allevati al diritto e alla politica nel suo studio: non solo Filippo Garavetti, poi più volte deputato di Sassari, Pietro Satta Branca, a lungo sindaco nell’età giolittiana, fondatore nel 1891 del quotidiano La Nuova Sardegna, Enrico Berlinguer (senior, c’è bisogno di dirlo?), più volte consigliere e assessore comunale, ma anche i conservatori Giuseppe Castiglia, professore universitario, e Michelino Abozzi, per quindici anni deputato della città.

Soro Pirino non era solo influentissimo. Era soprattutto circondato da un’aura quasi sacrale di stima. Mazzini era suo amico personale: scrivendo ai figli dell’avvocato, Ausonio ed Elvira, li invitava ad amare l’Italia ma anche «la povera, buona e leale Sardegna, che i re hanno sempre tradita e non risorgerà se non sotto bandiera di popolo» (nel 1861, quando si era sparsa la voce, non del tutto inconsistente, di un progetto di cessione dell’isola alla Francia, aveva scritto una serie di articoli molto polemici).

Gavino Soro Pirino
Ci sono due episodi, nella vita di Soro Pirino, che bastano da soli a disegnare un personaggio «d’una volta», come ora difficilmente se ne trovano. Primo episodio: nel 1880 viene eletto alla Camera dei deputati: non ci andrà mai, per non prestare il prescritto giuramento al re. Secondo episodio: nel 1883: ricorda su un giornale repubblicano di Tempio, «La Gallura», il caso Oberdan — l’irredentista triestino impiccato l’anno prima sotto l’accusa di voler attentare all’imperatore d’Austria —. In una frase il prefetto di Sassari legge l’«offesa verso la sacra persona del re d’Italia e reale famiglia» e lo denuncia: al processo tutti indistintamente i 59 avvocati del foro di Sassari si costituiscono a collegio di difesa. Sarà assolto, anche se il prefetto continua a bombardare il ministero degli Interni con notizie allarmanti sui «più epilettici discorsi in senso sovversivo» che si fanno intorno a lui.

Nel 1891 i suoi ex allievi vincono le elezioni comunali: Soro Pirino e Manca Leoni, uniti in una lista d’opposizione, sono strabattuti. Eletti, si dimetteranno dal consiglio dopo qualche settimana.

Ormai gli avversari (in Sardegna il «grande nemico» è il cagliaritano Francesco Cocco Ortu, amico di Zanardelli e ministro, più tardi, con Giolitti, colpevole di sacrificare gli interessi della Sardegna a quelli della sua città, poderosamente en marche, come dicono) parlano di Sassari come della «Repubblica sassarese». Quando nel 1899 si dà vita all’Unione popolare, una piccola maison du peuple, che è uno straordinario strumento non solo di alfabetizzazionema anche di indottrinamento politico, gli iscritti arrivano sino a mille.

Ma al referendum del 2 giugno 1946 Sassari sarà la città più monarchica della Sardegna, col 71,7 per cento di voti per il re e 28,3 per cento per la repubblica. Dopo vent’anni di fascismo la «repubblica sassarese» è finita. Meno male che da quel giorno c’è la Repubblica italiana.

sabato 27 novembre 2010

L’impennata indipendentista della Sardegna


SERGIO RIZZO E GIAN ANTONIO STELLA
corriere


La crisi della pastorizia si sta saldando con la scommessa industriale persa. E nella terra del primo martire prendersela con Roma diventa moda intellettuale


L’impennata indipendentista della Sardegna

La crisi della pastorizia si sta saldando con la scommessa industriale persa. E nella terra del primo martire prendersela con Roma diventa moda intellettuale

«Guidare la Sardegna verso una piena e compiuta indipendenza». Chissà cosa direbbe Francesco Cossiga a leggere la mozione del consigliere regionale Paolo Maninchedda. Passava ore, l’ex presidente da poco scomparso, a parlare del suo orgoglio sardo: «Siamo una nazione incompiuta. Abbiamo tutto (lingua, leggi, costumi, cultura, identità territoriale) per essere una nazione. Non lo siamo perché abbiamo rinunziato all’autonomia per amore dell’Italia C’è chi ha detto che la Svizzera è una "nazione di volontà": ecco, si può dire che la Sardegna è italiana per volontà».

Una nazione. Divisa in paesi. E i paesi in clan: «In sardo non esiste manco la frase: «come fai di cognome». Uno dice: «come ti narri»? Io rispondo: Franziscu. Nome proprio. Poi: «di che ratza sese?». Di che razza sei? Gruppo famigliare e paese. Rispondo: deo so de sos Còssiga de Zaramonte. Sono un Cossiga di Chiaramonti ». E così, vezzosamente, voleva essere chiamato: Ceccio da Chiaramonti.

Ma mai avrebbe potuto sottoscrivere quella mozione di Maninchedda. Dove si dice proprio così. Che «del territorio della Sardegna decidono i sardi e non lo Stato italiano». E che la giunta deve impegnarsi «a guidare la Sardegna verso una piena e compiuta indipendenza, avviando con lo Stato italiano una procedura di disimpegno istituzionale che preveda un quadro articolato di indennizzi per la Nazione sarda, in ragione di tutte le omissioni, i danni e le sperequazioni che la Sardegna ha subito prima dal Regno d’Italia e poi dalla Repubblica italiana». Non autonomia: «indipendenza». Brutalmente: secessione.

Cos’è: una testa calda? Macché: un docente di buone letture. Che col Partito Sardo d’Azione appoggia la giunta di Ugo Cappellacci. Le altre otto o nove mozioni presentate per modificare lo statuto regionale, del resto, non sono meno combattive. C’è chi chiede, come la sinistra e l’Udc, di riscrivere il patto fra la Regione e lo Stato. Chi, come il Pdl, vuole una proposta di legge costituzionale da inviare alle Camere per «affermare il diritto del Popolo sardo al suo pieno autogoverno».

Per non dire di quella di un gruppo con in testa Renato Soru che riafferma «la sovranità del Popolo sardo sulla Sardegna, sulle sue isole minori, sul suo mare territoriale, sovranità frettolosamente abbandonata nelle mani della Monarchia sabauda in cambio della "fusione perfetta con gli Stati della terraferma"» e «denuncia la concessione della perfetta fusione deliberata dal Re di Sardegna Carlo Alberto» considerando «politicamente conclusa la vicenda storica conseguente alla rinuncia alle proprie sovranità istituzionali, avvenuta il 29 novembre 1847».

Parole durissime. Tanto più perché pronunciate alla vigilia dei 150 anni dell’Unità in una terra che ha dato all’Italia non solo il primo contenitore istituzionale, cioè il Regno di Sardegna, ma il primo martire (quell’Efisio Tola di cui parla Manlio Brigaglia a pagina 17) e una lunga serie di protagonisti della nostra storia. In particolare in quell’incredibile quadrilatero intorno alla parrocchia di San Giuseppe di Sassari che ha visto crescere nei dintorni—anche se non tutti, ovviamente, andavano in chiesa —, due capi dello Stato (Francesco Cossiga e prima di lui Antonio Segni), due segretari del Pci (Palmiro Togliatti che fece il liceo a duecento metri ed Enrico Berlinguer che abitava a due passi), un leader referendario che per qualche tempo sembrò avere in pugno l’Italia (Mario Segni) e una sfilza di ministri, da Giuseppe Pisanu a Sergio Berlinguer, da Luigi Berlinguer ad Arturo Parisi.

Certo, Palmiro Togliatti sorrideva della retorica del Risorgimento: «È per il piccolo borghese italiano come la fanfara per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe». Ma certo sarebbe rimasto sbalordito da un’impennata indipendentista come quella che, senza che a Roma se ne siano ancora accorti, è partita dalla Gallura a capo Teulada. Come sarebbe rimasto stupito Indro Montanelli, che nel 1963 percorse per il Corriere l’isola (dove aveva frequentato il liceo al seguito del padre preside a Nuoro) e scrisse che «nelle loro rivendicazioni i sardi si sono mostrati molto più prudenti, cauti e misurati» dei siciliani.

«Quello che sta accadendo», spiega Mario Segni, «è una follia totale. La conseguenza di una situazione di profonda crisi nell’economia e nella società. Il fatto preoccupante è che comincia a essere un argomento di moda, fra gli intellettuali come nel sindacato. La classe politica, inetta, trova comodo scaricare le proprie responsabilità su Roma. E non è solo una questione limitata a pochi matti sardisti, se consideriamo che perfino 14 consiglieri del Pd hanno firmato una mozione nella quale si rivendica il concetto di sovranità. Insomma, è una situazione pericolosissima».

Tanto più in un momento come questo. Con la giunta Cappellacci nel caos. Il governatore che un anno e mezzo fa, trainato dai comizi del Cavaliere, sconfisse Soru innescando una reazione a catena culminata con le dimissioni di Walter Veltroni, è sotto assedio. A sinistra, come a destra, gli imputano di essersi fatto coinvolgere nella vicenda del business eolico dal faccendiere Flavio Carboni. Né gli sono risparmiate critiche per i silenzi sulla gestione del G8 della Maddalena. Prodi aveva promesso a Soru, insieme a un pacchetto da 400 milioni per sistemare pendenze in ballo da decenni, il rifacimento della statale fra Olbia e Sassari. Si sa com’è finita. L’appuntamento è stato spostato a L’Aquila. La strada e tante altre cose non si sono più fatte e ai sardi è rimasta la rabbia per il fiume di denaro sprecato, gli scandali della «cricca» e tutto il resto.

La miccia indipendentista pareva a lenta combustione. Ma rischia di bruciare più rapidamente in una regione dove l’economia è a pezzi e la politica non riesce a dare risposte. O peggio si arrocca nella difesa di realtà indifendibili, come le province regionali passate da quattro a otto sotto la precedente giunta destrorsa (ma senza troppe lagne della sinistra...) e rimaste nonostante Soru le avesse bollate come «una pazzia» tentando di abolirne quattro con un referendum. Otto giunte, otto consigli, otto sedi, otto amministrazioni. Anche dove c’è una manciata di abitanti, come nella Provincia dell’Ogliastra che ha come capoluogo Lanusei: 5.665 anime. Un ventesimo scarso degli abitanti di Giugliano.

Pascolano i consiglieri provinciali, pascolano i consiglieri regionali (uno ogni 19.266 abitanti: in Lombardia uno ogni 113.858), pascolano meno bene le greggi dei pastori cantati da Tonino Ledda: «Terra brujada est custa/ e d’est bocchende/ semen in sinu e brios in sas venas... » Terra bruciata è questa, e sta uccidendo semi nel seno e brio nelle vene...

La pastorizia attraversa la crisi più grave del dopoguerra. Nei magazzini giacciono 60 mila quintali di pecorino. Era l’oro della Sardegna. Non lo è più. Il prezzo del latte ovino è precipitato. «Me lo pagano mediamente 60 centesimi al litro, trenta o quaranta in meno di quanto mi costa produrlo», si sfoga Agostino Maddau, che ha trecento pecore dalle parti di Stintino, «È impossibile tirar avanti. Impossibile».

La crisi economica pesa, ma non spiega tutto. Negli ultimi due anni le esportazioni sono crollate. Colpa soprattutto degli Stati Uniti. Ma non perché gli americani, travolti dal crac delle banche, abbiano tagliato i consumi di pecorino. Gli è che non lo acquistano più tutto dalla Sardegna, ma anche dalla Spagna, della Grecia, dalla Romania. Direte: che c’entra la Romania? La risposta la trovate, per fare un esempio, aprendo il sito www.lactitalia.ro della rumena Lactitalia. Dove si spiega che il caseificio di Izvin tratta circa centomila litri di latte al giorno e produce Ricotta salata pressata, Toscanella, Mascarpone, Mozzarella, ricotta Pecorino. Tutti squisiti formaggi italiani dal nome italiano e tradizione italiana. Fatti vicino a Timisoara. Con effetti, secondo la Coldiretti, devastanti se è vero che anche a causa della concorrenza dei formaggi «italiani» fatti all’estero avrebbero chiuso dal 2004 ad oggi in Sardegna un migliaio di allevamenti.

Il punto è che in Lactitalia non solo l’azionista di maggioranza è la sarda Roinvest che fa capo alla famiglia Pinna, ma tra i soci c’è lo Stato italiano: il 29,5% è infatti della Simest, una società al 76% del ministero dello Sviluppo economico costituita per sostenere l’espansione all’estero delle nostre imprese. «Con l’ombrello della internazionalizzazione», accusa il direttore della Coldiretti sarda, Michele Errico, «un’azienda pubblica, magari in buona fede, sta finanziando la concorrenza sleale». Andrea e Paolo Pinna respingono le accuse sdegnati: «Per un breve periodo dell’anno è presente in loco latte di pecora con cui viene prodotto un pecorino da grattugia dello stesso tipo di quello che da anni si produce in Francia, in Bulgaria, in Siria, negli stessi Usa e in tanti altri Paesi, venduto poi sul mercato internazionale delle commodity industriali a basso costo. È un formaggio assolutamente diverso dal Pecorino Romano Dop per gusto, per forma, per marchiatura sulla crosta».

Che c’entra il pecorino romano? Vi sembrerà impossibile, ma questo è uno dei tanti «furti» dei quali i sardi si lamentano: il 90% del pecorino romano è sardo. Uno spreco assurdo di marchio, di cultura casearia, di identità. Vissuto in modo più doloroso oggi, con i pastori che occupano aeroporti e piazze per gridare la loro disperazione. Le 12.750 aziende per un totale di 30 mila pastori sono al collasso: se saltano loro salta il 35% dell’agricoltura sarda. Che già soffre per altri motivi. Non escluse, insiste Mario Segni, le responsabilità politiche: «Da un anno Bruxelles ha versato alla Sardegna più di 100 milioni per il miglioramento fondiario. Denari che la Regione doveva distribuire agli agricoltori. Che non hanno visto ancora un euro».

«Macché cento milioni: molto di più!», accusa Felice Floris, che per i pastori rappresenta un po’ quel che è Bové per i contadini francesi. «Per il periodo dal 2008 al 2013, l’Ue ha varato un piano di sviluppo rurale da un miliardo e 180 milioni. Ma ancora non è arrivato niente. E abbiamo una paura: che il grosso di questi soldi finisca per alimentare il parassitismo. La macchina burocratica attaccata alla politica».

Nel 2009, dice la Banca d’Italia, i raccolti si son ridotti del 13,7%: quattro volte la media nazionale. Ancora Floris: «Annate di siccità paurose. Autunni bruttissimi. Concimi passati da 20 a 110 euro. E poi i ricatti del mercato. A noi sta bene il mercato, ma mettano delle regole!». Per i cereali è stato un annus horribilis: -46,1%. Baingio Maddau, il padre di Agostino, ci trascina a vedere un enorme mucchio di grano. Ne prende un pugno, se lo fa scorrere fra le dita: «Sa quanto mi danno? 12 euro al quintale! Dodici euro! Vergogna! Piuttosto lo dò alle galline! ».

Ce l’ha con i grossisti, ce l’ha con l’Europa, ce l’ha con Luca Zaia che «ha pensato alle quote latte dei suoi elettori e non a noi». Dice che ha 120 vacche da carne e «un tempo erano una ricchezza», ma oggi per vacche di 6 quintali «sono arrivati a offrirmi 600 euro: un euro al chilo!» Felice Floris conferma: «Zaia ha condonato un miliardo e 600 milioni di multe alle aziende dei suoi elettori, ma poi quei soldi li pagheremo noi perché Bruxelles distribuirà i tagli a tutti».

Certo, la Sardegna è cambiata. Non ci sono più contadini come Ciccio Azzara così ignari del mondo da vendere per 160 mila lire a ettaro (si comprò una Fiat 600 e «un po’ di terra buona ad Arzachena») la favolosa insenatura di Liscia di Vacca dove, raccontò Mino Monicelli, le mucche andavano «al pascolo a nuoto, le corna alte sull’onda, dalla spiaggia di Pevero agli scogli Limbani, verdi e gialli nel mare verde e viola».

Tanti problemi, però, sono rimasti intatti. L’isola, per usare le parole di Montanelli (e sono passati 47 anni!) non è ancora riuscita a «liberarsi dal monopolio strangolatore della Tirrenia ». E mentre perfino il turismo pare in risacca (nel 2009 il calo delle presenze in Gallura, che pesa per il 40%, è stato del 4%.) alla drammatica crisi della pastorizia si salda la crisi del sogno industriale.

I dati sono da brivido. Nel primo trimestre 2010 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 16,1%: il più alto fra tutte le regioni. «In due anni abbiamo perso 24mila posti nella sola industria. Ma se aggiungiamo i 100mila sardi che beneficiano di qualche ammortizzatore sociale, si arriva al 26 o 30%», stima il segretario della Cisl sarda Mario Medde. Centomila: un lavoratore su sei è in cassa integrazione o riceve un sussidio. Per non dire dei giovani: «Quelli senza lavoro sono il 44%. L’emigrazione intellettuale è devastante. Il 21,4% delle famiglie versa in condizioni di povertà ».

Nel 2009, stando sempre alla Banca d’Italia, le esportazioni sono precipitate del 43,9%, il doppio abbondante rispetto al resto del Paese. Un crollo che si aggiunge a quello del 2008 quando l’export della provincia di Sassari era smottato del 23%, scendendo a un decimo di quelle di Alessandria o Ravenna. Confronti da spavento: provincia di Sassari vuol dire Porto Torres. E Porto Torres era il nodo del grande sogno industriale che dopo aver vinto la scommessa di strappare la Sardegna alla malaria (sulla spalliera di un ponte sul Cedrino si leggeva: «Vincerà l’uomo o la zanzara?») pensava di strappare i sardi alla miseria e alla emigrazione.

Hanno fatto soldi in tanti, a Porto Torres. Su Porto Torres. Come Nino Rovelli, il brianzolo patron della Sir che chiuse la sua spericolata avventura lasciando un buco pari a 14 miliardi di euro attuali. Poi, uno alla volta, come avevano immaginato Indro Montanelli e Guido Piovene, hanno spento gli impianti. In crisi l’alluminio, in crisi il polo tessile, in crisi il polo chimico. Con l’Eni decisa a chiudere e andarsene a dispetto di quanto accanitamente sostengono gli operai e cioè che «un grande Paese non può rinunciare alla chimica e la chimica come spiega Legambiente possiamo farla solo noi, che abbiamo imparato a nostre spese come occorrano grande professionalità e grande attenzione alla natura».

E non è un caso che questa doppia crisi della Sardegna pastorale e della Sardegna industriale trovi il suo punto simbolico all’Asinara. L’aspra, stupenda, struggente isola in faccia a Stintino che ha ospitato secoli di uomini ammaccati dalla fatica e dal dolore. Prima i pastori chiusi in una «isolitudine» disperata. Poi i reduci deportati qui in quarantena dopo viaggi di emigranti verso la Meriche interrotti da spaventose epidemie di colera. Poi i galeotti trascinati nei penitenziari. E infine Piero Marogiu e gli altri operai lasciati a spasso dalla Vinyls che da 212 giorni si sono «auto-carcerati» in un edificio dell’isola-galera inventandosi «l’isola dei cassintegrati». Grande idea mediatica. Che ha consentito loro di trascinare lì un sacco di gente. E ottenere ieri un incontro con Berlusconi. Ce la faranno i nostri eroi a vincere? Mah... In uno stanzone hanno steso uno striscione: «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso ». Ogni giorno, sul loro blog, tengono un diario. Quando cala la sera la solitudine li prende alla gola. Da dietro le sbarre, con il pensiero alle famiglie in terraferma, il mondo pare quello cantato da Lucio Dalla: «Dalla finestra lui vedeva solo il mare/ed una casa bianca in mezzo a blu...».

venerdì 26 novembre 2010

NOI, MANIPOLO DI EROI....

Sa Cantadora


Manca oramai una manciata di ore alla PRIMA GRANDE MARCIA INDIPENDENTISTA.
Siamo partiti in un certo numero, via via che intorno all’idea di Filippo si aggregavano intelligenze.
In quanti stiamo arrivando e conciati come?
La strada dell’eroismo è dura. E anche se gli eroi potenziali all’inizio son tutti giovani e belli (non è obbligatorio, ma fa curriculum), per strada si perdono pezzi, cambiano le cose e... cribbio, come fan presto amore, ad appassir le rose!
Alla conta finale, quagliando, rimangono gli Eroi.
Eroi molto tra virgolette. Però maiuscoli. Mi piace ugualmente chiamarli così, esercitando quel diritto di licenza poetica che trasforma ogni limite in una risorsa.
Ed ogni porzione di coraggio, appunto, in eroismo.
Perché abbiamo bisogno di porzioni, di frammenti, di tappe.
Sopratutto di quelli, abbiamo bisogno. Altrimenti, ogni specie di aspirazione faustiana alla ricerca del Fiore Azzurro, ci terrà lontani dal raggiungimento di qualcosa di solido da addentare.
Sto parlando del pericolo insito nello statuto segnico di ogni ideologia.
Ci tiene certo lontani anche dal rischio di metterci in gioco, ma ci lascia perennemente a bocca asciutta, perché avere il segno di qualcosa è al contempo la tragica ammissione dell’assenza di quella cosa stessa dal reale.
Mai - per chi avesse la stoffa dell’Eroe Tra Virgolette - scegliere una meta straordinariamente elevata che costringa alla stupefazione e all’attesa. Talmente lontana, che ti consente di limarti con calma le unghie e di fare una montagna di parole crociate prima di pensare ad impostare – sempre con moooolta calma - il navigatore satellitare.
Il nostro Eroe non ci tiene ad assomigliare all’eterno viaggiatore descritto da Adler, che per prudenza preferisce non arrivare mai.

No: gli Eroi Tra Virgolette hanno bisogno di piccole mete, di tappe intermedie. Di feste e di marce.
Anche perché l’una cosa non esclude l’altra. Anzi.
Quei sorridenti guerrieri della quotidianità, che agiscono come se già fossero liberi.
Quelli che quando cominciano una cosa, la finiscono, che quando credono in un’idea, lottano per realizzarla qui ed ora, senza aspettare che lo facciano altri; che si spendono in proprio e si assumono responsabilità. Anche quando il contesto non è esattamente... incoraggiante.
Quelli che si sforzano di incidere nella dura realtà un segno, perché in quel solco tanto a fatica inciso, la loro speranza si trasformi in seme orgoglioso della meravigliosa pianta del possibile, che là getti radici implacabili.

Noi, manipolo di eroi...
E’ stata dura. Ma siamo sopravissuti ai nostri Scilla e Cariddi, alle sirene e a Polifemo.
E’ stata dura. Qualcuno di noi non lo ammetterà mai, ma il poeta può dirlo e raccontarlo.
Può raccontare, e lo farà, una terribile fiaba dove nulla è ciò che appare e dove la terra è in catene e ci resta se non si capisce una buona volta, che in gioco si deve mettere ciascuno di noi, senza più delegare.
Il poeta lo farà, perché non conosce ragioni di opportunità linguistica, nè di linguistico pudore. Ed ha un’idea particolare di giustizia, che gli è data in cambio della croce cosmica che si assume.
Forse è per questo che viene fucilato per primo dal tiranno, come monito, o impiccato dai rivoluzionari vittoriosi, subito dopo, per precauzione.

E’ stata dura, ma noi, manipolo di eroi, abbiamo già vinto.

Comunque vada, nulla sarà più come prima.
Anzitutto abbiamo vinto una sfida grande con noi stessi, agendo come se fossimo già liberi, perché sentivamo d’aver diritto di sognare d’essere senza padroni, di decidere per noi stessi (prove tecniche di autodeterminazione, insomma), e di essere disposti per questo a metterci in gioco.
Di non aver delegato, nè di aver ricevuto delega alcuna e di agire in nome e per conto di noi stessi, insieme agli altri del manipolo orizzontale di Eroi Tra Virgolette.
Augurandoci che questo servisse a che la nostra gente tutta potesse un giorno assaporare ciò che noi gustavamo.

Ci saranno al nostro fianco solo tre persone a fare festa? Ce ne saranno tremila?
Chi lo sa... le previsioni lasciamole a chi si augura un flop, e buon pro gli facciano.
Per noi sarà comunque la Festa Grande della seminagione, come si faceva un tempo nelle nostre comunità, quando massajus e massajas condividevano aspettative e speranze, per il futuro e l’aratro non faceva guerra al seme, ma gli preparava con amore il solco.

Buona Marcia a tutti!

Sa Cantadora

giovedì 25 novembre 2010

S'INDIPENDENTZIA CUNTRA SA BARONIA E SA TIRANNIA...

Marta Pilliu

"Come prevedibile i maggiori movimenti indipendentisti si sono ufficialmente chiamati fuori e solo alcuni di essi parteciperanno in forma individuale, impedendo così indirettamente anche la concreta possibilità di raggiungere un numero mediaticamente accettabile. Si è replicato così, in qualche misura, quanto già successo per il discorso sul comitato antinucleare di luglio: se si può mettere il cappello si viene, altrimenti, col rischio di fallire, ci si chiama fuori."

L'iniziativa rimane valida ma a questo punto diventano fondati i rischi segnalati dalla maggior parte dei Movimenti Indipendentisti: "Poche persone in piazza rispetto ai grandi assembramenti come ad es. quelli Catalani, potrebbero incrinare l'immagine dell'indipendentismo che non dovrebbe presentarsi con poche centinaia di persone a fronte del milione e mezzo di abitanti della Sardegna.

Lo stesso MPS (che pure ha un'eco mediatica alla ribalta) non riesce a portare in piazza 10.000 persone.

a quanto detto sopra si risponde:

Salve Amico , ti do le mie impressioni ,e, gli altri diranno la loro se vorranno.

Con tutto il rispetto per U.R.N. Sardinnya e il vostro lavoro che reputo di grande interesse, a me la vostra posizione non sembra meno "di comodo" di quella di iRS (ammesso che lo sia, non so valutare la buona/mala fede della gente di primo acchitto).

Credo che quando si tratta di indipendentismo i rischi esistono, sempre. Non esiste una strada facile, non esiste un modo semplice per arrivare all'obiettivo, specialmente quando - come sottolinei tu - è facilmente presumibile una partecipazione alla Marcia ben più modesta rispetto a quella Catalana.

Mi chiedo però se i Catalani siano partiti col "botto", se le loro primissime iniziative popolari a favore dell'autodeterminazione fossero così sentite come oggi... Probabile che mi perda qualcosa e sia all'oscuro della genesi del movimento popolare catalano, perciò sorvoliamo e torniamo a noi. Premesso dunque che i rischi ci sono sempre in questo "campo", vediamo di capire come scongiurare il rischio di "fallimento"... cosa porterebbe al "flop"?La scarsa partecipazione.

Benissimo, come scongiurarlo? Coinvolgendo tutti i Sardi, ma soprattutto coloro che hanno questo sogno per la propria Nazione, sperando di dare uno "scossone" anche a quegli indipendentisti "dormienti" (lo sappiamo bene che sono molti), quelli che si arrendono in partenza credendo che la nostra indipendenza sia solo un bellissimo sogno inseguito da quattro gatti.

Di fronte a ciò, preso atto che la marcia si sarebbe fatta COMUNQUE... perché vi fate tutti da parte? Perdonami Amico, ma per me è un controsenso. Si vorrebbe evitare il rischio di flop, ma anziché partecipare per ridurre il rischio al minimo tirate tutti fuori questa motivazione. Io la faccio proprio semplice semplice: volete evitare il flop? Unitevi. O forse lo auspicate?

Vedi Amico, per me il problema è che continuate a scindere il movimento indipendentista (inteso non come partito, ma proprio come movimento sociale) tra "noi" e "voi", tipo "noi leaders che siamo elite, guida" di "voi poveri ciaputzus indipendentisti improvvisati". Sembra che se le cose non partono DA VOI non si smuove niente e nessuno. Se l'Uomo del Monte non dice "Sì" non si fa nulla, tutti gli altri farebbero meglio a tacere e starsene a casa ad aspettare che gli indipendentisti patentati si mettano d'accordo.

Ma a proposito di ciò toglimi una curiosità: da quando esiste l'indipendentismo nella nostra terra? E da allora, quanto ci avete creduto nel creare un dialogo al fine di concepire un progetto unitario? Io sono una poverina che guarda e vede tutto "da fuori", e TUTTI "VOI" ci fate la figura (scusa se lo dico, ma è sinceramente senza offesa) dei fessi arrivisti nel scannarvi per cretinate: Albero d'Arborea sì, Albero d'Arborea no, Albero d'Arborea forse ma contestualizzando; non-nazionalismo no, liberal-nazionalismo sì; Cossiga è rock, Cossiga è lento.

Ti parlo con onestà: non frega niente a nessuno di queste boiate. Né ce ne frega di chi conosce meglio il medioevo Sardo per battibeccare su quanto sia "sardo" e "nazionale" un cavolo di albero. State sempre là (e non parlo solo di U.R.N., ma proprio di tutti i movimenti organizzati) a criticare le discussioni sulla "lana caprina" e poi siete i primi ad alimentare sterili discussioni in svariate sedi, che siano forum, portali ufficiali o l'area-commenti del blog di qualcuno. Lasciar morire da sole certe fesserie è troppo complicato?

Ci arrivate a capire che se la gente non vota indipendentista è perché vi fate la guerra in casa e la sbandierata unità la cercate solo a parole? Questo sì che sembra un mettere le mani avanti per pulirsi la coscienza. Si può e si deve fare molto di più, ma è una questione di volontà temo. Fate i fatti, poi vi crederemo. Perché io NON CI CREDO che in decenni di lotta indipendentista non si sia riusciti a sedersi ad un tavolo almeno con la maggior parte dei movimenti per creare un progetto condiviso. Sarà forse mancata la volontà politica? Sarà forse che qualcuno è troppo legato al suo ruolo e al suo moro (o alberello, fate voi) da non volersi esporre al rischio di perdere una leadership data per scontata? Troppi polli in un pollaio?

Guarda, ribadisco... scrivo a caldo e da persona che osserva "da fuori", ma saprai bene che le persone come me vanno a formare quel bacino elettorale che VI SERVE. Senza la gente come me non arriverete da nessuna parte. E sai meglio di me che le persone non mettono la X sull'indipendentismo non solo perché lo Stato colonizzatore ha fatto tabula rasa sulla nostra Nazione, ma pure perché non siete credibili. Quindi dateci ascolto e considerazione. E provate a pensare che a volte, FORSE, è bene ascoltare la gente. E magari seguirla pure, se ne condividete gli obiettivi.

Sai, qualche settimana fa un sacco di sedicenti indipendentisti si sono esaltati per il video di 5771 Catalani che hanno cantato all'unisono per l'indipendenza in Catalogna... "bravissimi!", "bellissimo!", "prendiamo esempio!", "sogno di vedere i Sardi sotto il palazzo regionale a cantare INDIPENDENTZIA!", e chi più ne ha più ne metta... molte di queste persone sono le stesse che si sono chieste chi fossimo, chi ci fosse dietro di noi a "tirare i fili, quale fosse l'obiettivo, che si andava a chiedere e tutto un elenco di dubbi, di domande, di sospetti sulla nostra personale buona fede da far accaponare la pelle.

Dunque è vero: i Sardi sono pocos, locos y mal unidos. Manifestazioni festose come questa sono apprezzabili... se le fanno gli altri. Se ci pensa qualcuno di noi subentra "l'autocastrazione" tipicamente sarda: o siamo grezzi, o siamo matti, o siamo "sospetti", o destinati al fallimento - tu Amico hai pure le cifre sull'esigua partecipazione, grandioso. Se non è fatalismo questo e totale mancanza di partecipazione...

Siete tutti a favore del coinvolgimento del popolo nel "movimento" indipendentista - sempre e solo a parole, si capisce - ma quando c'è un'occasione in più - e ripeto IN PIÙ, non l'unica o la migliore possibile - la disertate, perché "rischiosa". Se non siete disposti a correre rischi non chiamate voi stessi indipendentisti. Perché PER ME un indipendentista vero dei rischi se ne sbatte e collabora per ridurli al minimo, che le iniziative partano dai "Baroni" o no. Se poi ritenete che vero indipendentismo sia solo il "vostro", quello "serio" che può ottenere risultati, il mio supporto non lo avrete mai.

E detto onestamente: se l'indipendentismo serio e concreto fosse il vostro non mi spiego come mai siamo ancora a questo punto, mentre la società sarda nella sua interezza scava il pavimento oltre il fondo del barile, ormai disintegrato da tempo.


Senza nessun astio personale, Amico . Anzi, con stima.
E scusa per l'eccessiva lunghezza del messaggio.

Marta


martedì 16 novembre 2010

MOLTITUDINE INDIPENDENTISTA.

IL FASCINO DELL’ORIZZONTALITA’ CONQUISTA IL MONDO INDIPENDENTISTA.
P.A.
DIPINTO DI: CICI PEIS

Cosa accadrà il 27 novembre, a Cagliari?
Una Marcia? Una Festa per l’Indipendentismo?
Organizzata DA CHI?
E’ davvero bastata l’idea di un emigrato?
Cosa c’è dietro?

Stupito dalla frammentazione dell’universo indipendentista, Filippo Gregu, villacidrese emigrato da tempo (mai fatto politica in vita mia!), lancia un anno fa l’idea di organizzare una marcia. Per ritrovarci tutti insieme, noi sardi, senza più divisioni e senza polemiche, a far festa per quest’ideale che sembra essere vivo e impetuoso nel cuore di tanti, ma anche... latente e in attesa nel cuore di altrettanti sardi.
Perché in attesa? In attesa di che, dopo tutto?
Cercando la risposta a questa domanda mi viene in mente una bella canzone che ha contribuito al formarsi di alcune categorie mentali nelle persone della mia generazione:

Avanzan ya banderas de unidad,

y tu vendras marchando junto a mi...

Ah... brivido...
Dicevamo?
Si, giusto: ci chiedevamo in attesa di che, l’indipendentismo rimane latente nel cuore di tanti.
Di che...
Come?! Ma della benedetta certezza di saperci uniti, che altro?
Schematizziamo, per chiarezza: perché a volte è necessario fare “il disegnino”.
Noi tutti indipendentisti al di qua di una linea immaginaria, insieme fianco a fianco.
E al di là di quella linea: ciò che combattiamo.
Bene, perfetto: il nemico è altrove.
Basta col guardarci tra noi con la coda dell’occhio.
Il nemico è altrove.
Di solito, tra gente con i neuroni in perfetta forma, il nemico sta davanti ed ha la casacca di colore diverso.
Avete presente la scacchiera? O un campo di calcio? Beh, gli esempi si moltiplicano se ci pensiamo.
Dunque, perché mai la squadra degli indipendentisti – che hanno (o dovrebbero avere) la casacca dello stesso colore - al momento del calcio di inizio, si comportano in maniera strana?
Occhio alla cronaca: Uno se ne va a controllare se la bandierina è ben piantata nell’angolo, perché come pianta bandiere lui non le pianta nessuno, e dunque non si fida degli altri.
DUE organizza un sit-in nella propria area di rigore.
TRE non partecipa a quel sit-in perché chi lo ha organizzato non gli ha mandato un invito ufficiale, e ne organizza uno alternativo poco più in là.
QUARTO cerca alacremente di convincere UNO e TRE a fare gioco di squadra, ma non si accosta nemmeno a DUE, perché ritiene che sia meno indipendentista di lui.
Nel frattempo IL NEMICO – per intenderci: quello che ha “il tuo stesso identico umore, ma la casacca di un altro colore”, imbracciata l’artiglieria sta infilando in porta il goal numero tremilaquattrocento e uno...

Avanzan ya banderas de unidad...


Per concludere, chi ha l’indipendentismo latente nel cuore, vuole vedere unità, per dare forza insurgente al suo ideale. Per decidere di investirci risorse di speranza.

Eccoci dunque tutti idealmente sistemati al di qua della linea immaginaria e – lo ripetiamo perché ci piace – tutto ciò che combattiamo dall’altra parte.
Che ci vuole? Direbbe qualcuno...
Nessuno sa dire perché, ma tra i pareri degli addetti ai lavori emerge chiaro che non è cosa e che non è tempo.
Discorsi che i NON addetti ai lavori non capiscono.
E che invece aspettano di capire. Per schierarsi.
Per uscire dal qualunquismo amorfo ed assumersi la libertà della propria nazione ed il diritto all’autodeterminazione della propria gente, come missione.

E allora, via, facciamola questa Prima Grande Marcia, questa Festa, in attesa che si dissipino i dubbi.
Intanto facciamola per dire ai Movimenti Indipendentisti organizzati, che riconosciamo prezioso il loro lavoro. Il 27 novembre a Cagliari, la gente sarda marcerà per dare un segnale forte d’ appoggio a chi dell’Indipendentismo ha fatto una scelta militante.
Per dire forte: CI CREDIAMO.
Per affermare che l’INDIPENDENZA non è solo un sogno di pochi, la battaglia di pochi, ma il desiderio di molti che può diventare l’impegno di tutti.

Indossiamola questa casacca. Tanto ci sarà sempre chi il numero lo vuole rosso e chi lo vuole verde, chi pretende i fiorellini ricamati sul bordo, e chi ci vuole disegnate le stelle.
Ma se il colore di fondo è lo stesso, ci capiamo.
Perché: ci capiamo, giusto? Sopratutto sappiamo bene tutti di che colore è la casacca avversaria e non c’è maniera di confondersi.
Dunque, perché cavillare???

Ma no, dai: nessuno cavilla.
Ne è riprova il fatto che non solo tanta gente comune e militanti, ma anche Dirigenti e Coordinatori Distrettuali di uno dei Movimenti Indipendentisti, e personalità di spicco degli altri, fanno parte del manipolo degli organizzatori, che orizzontalmente si sono aggregati intorno all’idea e che lavorano, lavorano sodo per preparare la giornata del 27 prossimo.
Uno disegna il logo delle magliette, uno disegna le locandine, un altro compone il testo dei comunicati, un altro ha preparato da tempo un video che gira da mesi in rete. Tanti, tanti si occupano degli altri mille problemi organizzativi.
Si arriva dove si può (non si rifiutano aiuti dell’ultim’ora!!), ma il bello è che tutta la costellazione indipendentista è rappresentata.
Lavoriamo insieme, in perfetta orizzontalità.
E mille altri ci incoraggiano. Tanti emigrati, che hanno fatto già il biglietto per venire a sfilare con noi, il 27.

Sarà il fascino dell’orizzontalità, ma uno dei Movimenti Indipendentisti, il PAR.I.S. ha aderito “senza se e senza ma” dalla prim’ora, e altri due AmpI e iRS, si sono comunque dichiarati favorevoli all’idea, lasciando libera di partecipare la militanza ed auspicando il moltiplicarsi di iniziative del genere.
SNI lascia alla propria coscienza la responsabilità della decisione dei militanti di manifestare adesione o meno all'iniziativa della marcia del 27 a Cagliari.
I documenti ed i pareri circolano in rete, c’è poco da aggiungere.

Che dire ancora delle adesioni a titolo personale che sono arrivate e che arrivano?
Segnalo solo qualcuna, tra le personalità eminenti del mondo culturale: @Mario Puddu, @Salvatore Cubeddu, @Alessandro Mongili, @Paola Alcioni.
Di altri aspettiamo conferma, con trepidazione, perché la loro presenza è un segnale importantissimo.
Altre del mondo dei sindacati: @Giacomo Meloni, @Valter Erriu.
E ancora, esponenti politici di spicco dell’Indipendentismo, come @Gavino Sale, @Doddore Meloni.

Ma questo elenco ci costringerà ad un aggiornamento quotidiano, da qui al 27 prossimo.

Che sia la volta buona?
Concludo velocemente: a si biri sanus, su bintiseti in Casteddu.

Antzis... a si biri SARDUS e INDIPENDENTIS!

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