lunedì 7 maggio 2012

Fukushima Il reattore n° 4 rilascia Cesio-137 i venti condannano la California

weeklyintercept

Technorati
Stephen Alexander

Se il reattore 4 a Fukushima diventa instabile e rilascia 10 volte la quantità di Cesio-137 (Cs-137) rilasciata al momento dell'incidente nucleare di Chernobyl, e i venti prevalenti potrebbero portarlo fino alla parte occidentale degli USA -che significa California .

Il 30 aprile 2012, 72 organizzazioni ONG hanno inviato una richiesta alle Nazioni Unite e al governo giapponese sollecitando la rapida azione per stabilizzare l'unità centrale nucleare di Fukushima Daiichi 4 combustibile nucleare esaurito.
Gli esperti nel settore nucleare sia  Giapponesi che nel mondo hanno approvato la lettera.

La lettera conteneva avvertimenti che l'unità
4  ha danneggiata la piscina del combustibile nucleare esaurito contiene cesio-137.
Questa piscina se è stata esposta a un terremoto o un altro evento che drena la piscina, quindi il risultato potrebbe essere un  catastrofico incendio radioattivo. La lettera ha esortato le Nazioni Unite a creare un vertice della sicurezza nucleare per trovare una soluzione al problema al'Unità di Fukushima Daiichi 4 e alla piscina del combustibile nucleare esaurito. La proposta ha indicatoto come le Nazioni Unite dovrebbero creare un team indipendente di valutazione relativa all'unità Fukushima Daiichi 4 e organizzare l'assistenza internazionale per stabilizzare il combustibile nucleare esaurito dell'unità e impedire la catastrofe imminente. La lettera è stata consegnata sia al Segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon che al Primo Ministro giapponese Yoshihiko Noda.  
La seconda lettera ha incoraggiato il Giappone a chiedere ufficialmente aiuto alle Nazioni Unite.  Gli oltre 10.000 elementi di combustibile esaurito siti presso l'impianto di Fukushima Daiichi si trovano in piscine vulnerabili ai terremoti futuri. La radioattività è di circa 85 volte più alta e  duratura rispetto alla radioattività rilasciata a Chernobyl.

STIGLITZ E L' AUSTERITA' SUICIDA

DI GUSTAVO PIGA
ilmanifesto.it





  
Ascoltare il dibattito tra Monti e Stiglitz è stato emozionante. Potenti le cannonate dell’economista americano, che lasciano basita una platea abituata allo slang triste europeo. Al termine del suo discorso si sente lo spavento che pervade la sala, paura per una crisi che forse non passerà se non si faranno le cose giuste. Il linguaggio è stato come quello di un marziano. Tant’è che la migliore difesa che il premier ha potuto montare è stata quella di differenziare l’America dall’Europa in termini di obiettivi. Non ha funzionato.
L’Europa non deve solo crescere economicamente, come gli Stati Uniti, ma far crescere anche le sue istituzioni e questo può andare anche a scapito della crescita economica. Mi sono detto che non è così, che forse per uno o due o anche tre anni può essere così, ma nessuna nazione può tenersi in piedi, coesa socialmente, senza che le sue istituzioni siano dedicate solamente alla crescita del benessere dei suoi cittadini.

Un linguaggio che effettivamente non si sente più nel nostro Paese. Non è solo questione di diversa enfasi, no, ascoltare Stiglitz era rendersi conto che esiste là fuori una strada alternativa di cui in Europa è vietato parlare. Un nuovo «dibattito proibito», per riprendere il titolo di un felice libro di Jean-Paul Fitoussi che uscì qualche anno fa. Era anche dare nuova linfa alle parole, come se queste fossero rose innaffiate dopo lunga aridità.

Prendete la parola più menzionata in Italia questi giorni. La parola spreco. Anche Stiglitz ne ha parlato. Di sprechi. Ma non parla di Bondi. No, parla del più grande spreco, quello vero, quello reale, dice Stiglitz: lo spreco immenso, trilioni di dollari, di tutte quelle risorse, naturali, materiali ed umane, uguali a quelle che avevamo nel 2008 e che da allora però non utilizziamo più a causa di questa crisi. «Ed è l’austerità che tiene vivi questi sprechi». Tutti quei giovani, che oggi non lavorano, che diventeranno alienati dal resto della società, che se e quando, tra tanti anni – se continuiamo con la stupida austerità – troveranno forse un lavoro, ma a salari più bassi perché avranno disimparato a fare e avranno perso l’orgoglio e la voglia di affermarsi. Ecco lo spreco, dice il Premio Nobel. Ecco, è questo l’unico vero, grande intollerabile spreco di questa maledetta crisi che non vogliamo combattere.

Perché si può combattere. Con un nuovo approccio di politica economica. Nessuna grande economia mondiale, mai, è uscita da una crisi di questo tipo con l’austerità, dice Stiglitz che diventa subito un fiume in piena che abbatte le nostre magre argomentazioni europee affaticate dal fallimento. «L’austerità non funziona, basta guardare ai dati: essa smonta anche i rientri dei bilanci pubblici verso il pareggio». Le riforme? Le riforme che servono anche nel breve periodo sono quelle che migliorano la situazione dell’accesso al credito per le piccole imprese e quelle che aumentano il sostegno alle università. Le riforme sono utili, ma hanno bisogno di tempo e, nel frattempo a volte riducono la domanda nel sistema, che già manca. Il mercato del lavoro americano è certamente flessibile eppure ciò non ha impedito che si raggiungesse una disoccupazione del 10%. In questa crisi non si creano posti di lavoro senza maggiore domanda aggregata. Bisogna fare politiche per il breve periodo. «E il breve periodo può durare a lungo se si mantiene l’austerità». Tutto qui? No, finiamo con la ricetta proposta dall’economista americano.

Primo, politica fiscale espansiva in Germania, anche con ampi deficit pubblici. Concordiamo. Secondo, in Italia, politica fiscale espansiva senza maggiori deficit pubblici. Il che significa più spesa pubblica con gli aumenti di tasse (già fatti) destinati a pagarci la spesa pubblica e non il debito pubblico. Oppure con i tagli agli sprechi che non devono generare maggiore austerità ma maggiore domanda da parte dell’unico attore che in questa crisi può domandare, lo Stato. Concordiamo. Senza toccare il deficit, il Pil sale, facendo anche scendere i rapporti deficit e debito su Pil. Grande ruolo per investimenti pubblici, spesa per l’istruzione e per la sanità. Terzo, tasse e spesa pubblica devono anche ridurre le disuguaglianze che specie in questa fase distruggono la crescita economica. Concordiamo.

Senza maggiore spesa pubblica anni ed anni davanti a noi di maggiore disoccupazione. Alle sue raccomandazioni aggiungiamo: vera spesa pubblicata, monitorata e la cui qualità sia assicurata da competenze e assenza di corruzione.

Monti ha detto alla fine del dibattito: «Sono desideroso di sapere come rispettare l’obbligo di bilancio in pareggio facendo diminuire il rapporto debito su Pil e soddisfacendo al contempo l’esigenza immediata di crescita». Forse non se ne è reso conto, forse sì, ma questo «come» glielo aveva spiegato pochi minuti prima Stiglitz, che ha aggiunto: «I terremoti accadono. Anche gli tsunami. Non è colpa nostra se accadono. Ma perché a queste tragedie dobbiamo aggiungere dei disastri causati da noi stessi? È criminale questa ignoranza di quanto è avvenuto nel passato, l’economia deve essere al servizio della gente, e non viceversa».


giovedì 3 maggio 2012

Sardinya: «Isola indipendente»

  SARDINYA: SA REVOLUTZIONI DE IS PABAULIS

"L'indipendenza non va riferita a un futuro indeterminato. Appartiene all'urgenza e alla responsabilità del presente. CHI DICE CHE I TEMPI NON SONO MATURI CREDE CHE IL TEMPO DEBBA MATURARE PER CONTO SUO, COME FRUTTO DI STAGIONE. E' una concezione PASSIVA che chiude la frontiera del tempo e nega la sua apertura. (...) Chi dice di attendere il tempo giusto subisce il tempo governato dagli altri e continua a servire i padroni del tempo..."

Bachisio Bandinu, PRO S'INDIPENDENTZIA, pag.6

 Giuseppe Meloni

www.unionesarda.it

 Il quesito proposto da Malu Entu

«Isola indipendente»: l'iniziativa di Doddore Meloni raccoglie 27mila firme


Doddore Meloni

Sono già più di 27mila le firme raccolte dal referendum per l'indipendenza proposto da Doddore Meloni. Ad annunciarlo è lo stesso fondatore della Repubblica di Malu Entu, alla vigilia del suo compleanno numero 69 (è nato il 4 maggio), che coincide anche con la data del suo ritorno alla politica attiva, nel 2008, dopo tanti anni di silenzio.

IL QUESITO
Il testo su cui Meloni ha raccolto le sottoscrizioni (27.347, per la precisione) è molto diretto: «Sei d'accordo, in base al diritto internazionale delle Nazioni Unite, al raggiungimento della libertà del popolo sardo, con l'Indipendenza?». Non si parla genericamente di autogoverno o poteri locali: ai cittadini viene chiesto un pronunciamento molto chiaro, a favore o contro l'ipotesi della creazione di una Repubblica di Sardegna.
Forse anche per questa nettezza, molti degli altri leader indipendentisti hanno preso le distanze dall'iniziativa di Doddore Meloni. L'idea del referendum è emersa nei mesi in cui alcune delle varie sigle (la stessa Malu Entu insieme a Sardigna natzione, Progres e A manca pro s'indipendentzia) stavano progettando la cosiddetta Convergenza nazionale, ossia una sorta di patto di collaborazione politica tra diversi soggetti dell'area identitaria.

POSIZIONI CONTRASTANTI
Obiettivo sfumato, almeno momentaneamente: e tra le ragioni della mancata intesa c'è anche la scelta di Meloni di avviare la raccolta firme, giudicata negativamente dai colleghi perché assunta in solitario. I leader dei vari partiti e movimenti temono che un'eventuale consultazione, se si concludesse con la sconfitta del sì all'opzione della Repubblica sarda, segni un arretramento del loro ideale indipendentista e della relativa battaglia.
Ma questo, per Doddore Meloni, non è un buon motivo per non provarci neppure. «Per la prima volta nella storia della nostra terra - scrive in un comunicato - la popolazione sarda si potrà esprimere sul suo presente e sul futuro delle prossime generazioni». Meloni valuterebbe con favore anche una percentuale pro-indipendenza attorno al 35%: «Farebbe emergere un sentimento diffuso anche tra gli elettori dei partiti italiani, e favorirebbe la nascita di un polo indipendentista per presentarsi alle prossime elezioni regionali». 

martedì 1 maggio 2012

Il nuovo Statuto e l'antico desiderio di farlo riscrivere dalla società civile

 

Il nuovo Statuto e l'antico desiderio
di farlo riscrivere dalla società civile

Da undici anni si tenta (inutilmente) di varare l'Assemblea costituente  

Fabio Manca

www.unionesarda.it

Che lo Statuto speciale, la Carta costituzionale dei sardi, abbia bisogno di essere cambiato per aumentare il grado di autonomia della Regione e soprattutto dopo l'avvento del federalismo, e il conseguente decentramento di decine funzioni, e dopo l'ingresso dell'Italia nell'Unione europea è un fatto condiviso. Sul modo per farlo le forze politiche si dividono: è opportuno che le modifiche statutarie vengano fatte dal Consiglio regionale o da una nuova assemblea, composta non solo da politici, ma da gente comune e rappresentanti di tutte le forze sociali e imprenditoriali eletti dai cittadini?
È il tema del sesto dei dieci quesiti sui quali i sardi dovranno esprimersi domenica. “Siete favorevoli alla riscrittura dello Statuto della Regione autonoma della Sardegna da parte di un'Assemblea costituente eletta a suffragio universale da tutti i cittadini sardi?” chiede il Movimento referendario.

LE ADESIONI Del tema si discusse abbondantemente tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo, gli anni in cui, sulla spinta di un largo movimento trasversale, prima i Riformatori sardi, poi la Giunta regionale (su proposta dell'allora assessore agli Affari generali Italo Masala), seguiti dai Sardisti e da buona parte del gruppo dei Democratici di sinistra, presentarono proposte o disegni di legge poi unificati nella proposta di legge nazionale numero 5 approvata dal Consiglio regionale nel torrido pomeriggio del 31 luglio del 2001.
La legge chiedeva sostanzialmente che al titolo VII della legge costituzionale del 26 febbraio 1948 numero 3 (lo Statuto sardo) venisse aggiunto un articolo che autorizzava il Consiglio regionale a deliberare l'istituzione di un'assemblea costituente. Poi la legge, come spesso accade, si arenò in commissione Affari costituzionali del Senato e da lì non si è mai mossa.

«FACCIAMO DA SOLI» Nel frattempo è cambiato il mondo, compreso il titolo V della Costituzione che modifica le competenze di Regioni, Province e Comuni, e numerose Regioni hanno già modificato la loro Carta senza chiedere il permesso al Parlamento. Ed è esattamente ciò che si intende fare in Sardegna. Se i sardi si esprimeranno per il sì, sarà una esplicita autorizzazione a indire le elezioni per l'Assemblea costituente. Che - nelle intenzioni dei promotori - sarà costituita da tutte le componenti della società: dai sindacati alle imprese sino ai sindaci. Saranno loro a decidere che cosa cambiare dello Statuto speciale: certamente (lo ribadisce il leader della Cisl nell'articolo sotto) tra le altre cose vorranno una reale autonomia finanziaria e, dunque, una maggiore percentuale delle tasse pagate in Sardegna, il riconoscimento dell'insularità come fattore di svantaggio, più competenze sull'istruzione.

IL LAVORO DEL CONSIGLIO Sullo Statuto sta lavorando da tempo (seriamente ma con i tempi e i veti della politica) la commissione Autonomia del Consiglio regionale. Ragione per cui i nemici della Costituente ritengono il referendum superfluo. Secondo i promotori, al contrario, il Consiglio regionale non è riuscito negli ultimi undici anni e non riuscirà oggi a produrre nulla. Perché tende ad autoproteggersi. Come una Casta.

INTERVISTA. Parla Mario Medde, leader della Cisl sarda

«Istituzioni screditate,  rinnoviamo noi le norme»


«Dico sì alla Costituente perché né la Giunta né il Consiglio regionale hanno le carte in regola per riscrivere lo Statuto speciale e perché ci vuole una forte forza contrattuale nel confronto con lo Stato, che si può avere solo con una grande e diffusa partecipazione popolare».
Mario Medde, leader della Cisl Sarda, è tra i sostenitori storici della battaglia per la riscrittura dello Statuto attraverso un'assemblea costituente eletta a suffragio universale da tutti i sardi. E oggi che la crisi economica è drammatica, che il rapporto con lo Stato è ai minimi termini, come il gradimento dei partiti, lo è in modo ancora più convinto. «Per riscrivere lo statuto e liberare canali di collegamento, oggi ostruiti, tra partiti istituzioni e società ci vuole una forte legittimazione popolare», dice. Un'altra ragione è connessa alla necessità di far sì che lo Statuto venga rivisitato anche attraverso la partecipazione delle forze sociali ed economiche che sono in prima linea per rilanciare i temi dell'economia e del lavoro.

RIEQUILIBRARE I POTERI Per Medde: «Il nuovo Statuto può essere incisivo se saprà riequilibrare i rapporti e poteri e se rinegozierà le risorse che spettano alla Sardegna e questo sarà possibile solo se ci sarà una spinta totale dei sardi». Nel merito, il primo punto da rivedere sarebbe l'articolo otto, modificato alcuni anni fa in virtù dell'accordo, per ora inattuato, raggiunto in conferenza Stato-Regione sulla percentuale delle tasse versate dai sardi che spettano all'Isola. «Ci spetta una percentuale maggiore delle entrate fiscali e occorre che vengano riscosse direttamente dalla Regione, non più dallo Stato, a traverso un'agenzia delle entratea carattere regionale». Per Medde «serve un'autonomia finanziaria reale» e gli incrementi accordati dallo Stato e inseriti nel novellato articolo 8 «sono irrisori soprattutto alla luce del fatto che contestualmente sono state assegnate alla Regione le competenze sulla Sanità e sulla Continuità territoriale di cui prima si faceva carico Roma. Il fatto che quell'articolo sia stato decostituzionalizzato e inserito in un articolo della Finanziaria dello Stato la dice lunga sull'atteggiamento dello Stato nei confronti dell'Isola». A giudizio del segretario regionale della Cisl, agire sulla leva fiscale è fondamentale per allineare la Sardegna alle altre regioni, compensando gli svantaggi dell'insularità.

L'ISTRUZIONE REGIONALE Altra competenza da assegnare statutariamente alla Regione, per Medde è l'istruzione. «Oggi abbiamo solo la formazione professionale ma se vogliamo agire sulla dispersione scolastica e sulle drammatiche condizioni dell'edilizia scolastica dobbiamo avere la competenza su tutta la filiera dell'istruzione».

SOBERANIA EST INDIPENDENTZIA

 Gesuino Muledda 
Segretario natzionale RossoMori


Per molte delle cose che dirò posso essere chiamato in causa almeno come corresponsabile. E’ giusto che così sia.
Non è però giusto che qualcuno usi atteggiamenti censori per quanto uno pensa. Vale per tutti l’etica della convinzione e per tutti l’etica della responsabilità.
Concordo con Marcello Fois quando pone al mondo indipendentista la necessità di superare lo schema per cui tutti, o gran parte dei mali, derivano dall’esterno.
Perché è pur necessario, per l’etica della responsabilità, che si dia un giudizio sulle responsabilità dei governanti della Regione, in primo luogo, della lunga stagione della Autonomia; in secondo luogo, del ceto dirigente della società sarda, del quale, in fin dei conti, il ceto politico è espressione. Sto chiamando in causa l’intellettualità sarda, gli imprenditori, i formatori delle giovani generazioni, il sindacato e le rappresentanze di impresa. Fatta salva la principale responsabilità dei dirigenti politici e degli amministratori regionali.
Responsabilità per lo stato attuale della Sardegna.
La quale si è trovata ad affrontare la stagione della globalizzazione senza la pur possibile attrezzatura.
In primo luogo senza una intellettualità impegnata nella elaborazione di un progetto di modernità che avesse, contemporaneamente, una forte elaborazione identitaria, una consapevolezza degli strumenti necessari per la sua affermazione, una visione istituzionale capace di piena rappresentanza per la affermazione degli interessi del popolo sardo.
E una attività di governo che avesse orizzonti larghi e visioni lunghe. Le due cose si intrecciano, evidentemente.
Non si è realizzata in Sardegna la necessaria e possibile accumulazione di forza democratica per deficit nella accumulazione dei saperi, dei poteri, delle produzioni, delle innovazioni e di giustizia sociale
Sinteticamente, c’è stato un deficit di sardismo.
Intendo il sardismo come soggettività politica di un popolo che pretende di affermare contemporaneamente giustizia e libertà. Questo era l’azionismo originario dei padri fondatori del P.S. d’Az., coniugato con la forte determinazione a conquistare i poteri necessari per l’autogoverno del popolo sardo.
E collocavano, i padri fondatori, la Sardegna in un orizzonte europeo, proponendo, già allora, l’unità dell’Europa dei popoli, federale, solidale, e specialmente per Lussu, socialista.
Intorno all’obiettivo della conquista dello statuto di Autonomia si è realizzata una forte mobilitazione di consapevolezze e di popolo.
Come pure, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto si è realizzata una battaglia rivendicativa della rinascita che, pur con limiti, ha conquistato impegno di risorse e ha consentito una importante implementazione dei poteri, per qualche parte normativa, per altre parti di esercizio di fatti di altri poteri.
Valga per tutti la limitazione dei poteri della Cassa per il Mezzogiorno, allora onnipotente.
Ma è stato scelto un modello di sviluppo incentrato sulla industria di base, poi fallita, che non ha portato all’accumulazione della produzione, nè alla nascita e affermazione di un sistema di imprese sarde del settore industriale. E in quel frangente storico non si è realizzata la necessaria e possibile apertura verso le innovazioni che nel mondo si andavano realizzando.
La carica identitaria si è indirizzata prevalentemente verso un rivendicazionismo e una vertenzialità economica e istituzionale durante la quale però, alla fin fine, lo stato italiano, i suoi governi si sono sottratti all’impegno per la Rinascita, progressivamente riducendo la presenza delle partecipazioni statali, introducendo la pratica tutta assistenzialistica della cassa integrazione a vita per la giovane classe operaia.
In gran parte della Sardegna non si è conosciuta la seconda generazione operaia. Responsabilità, certo, dello stato italiano e dei suoi governi. Ma responsabilità, anche dei governi regionali e del ceto dirigente tutto. Ciascuno per quanto gli compete.
E nel frattempo è nata la società dell’informazione. E la quantità della nostra scolarizzazione e la qualità della nostra formazione, non sono state adeguate. Non perché non si siano spese risorse: è mancata la finalizzazione a un progetto di sviluppo adeguato ai tempi. Che anzi i fatti innovativi che si sono proposti sono stati osteggiati perché mettevano in discussione gli equilibri di potere. Lo stesso fenomeno del turismo è nato come corpo sostanzialmente esterno e la nascita e la crescita delle imprese turistiche sarde hanno tardato e non hanno costituito ancora oggi sistema. E le tematiche ambientali sono state vissute come ostacolo all’imprenditoria e le questioni dell’acqua e dell’energia sono state vissute come fatti non combinabili come occasione per organizzare un nuovo modello di sviluppo.
E la riforma agropastorale estesa fin in tutte le zone irrigue ha dato importanti risultati nel settore primario, abbandonato però alla logica predatoria degli industriali del latte; ma di fatto ha orientato gli investimenti e le attenzioni quasi esclusivamente verso la pecora e non per le colture ortofrutticole per le quali siamo rimasti completamente dipendenti.
La Regione Autonoma aveva i poteri per fare questo o altro. Non è stato fatto l’altro necessario e possibile. E’ stato creato un sistema regionale centralistico e ministerializzato. Ma la Regione, di norma, avrebbe dovuto operare attraverso gli Enti locali. E’ stato creato un sistema di bilancio finalizzato alla gestione centralistica che non ha consentito agli amministratori locali di esercitare la propria autonomia, riducendo in questo modo la possibilità di ricambio del ceto politico regionale. Si potrebbe continuare.
L’etica della responsabilità vuole che chi ha avuto ruolo politico, per la parte che gli compete, se ne assuma le responsabilità. Anche senza assolvere lo stato italiano, l’Europa, e i relativi governi.
Nel 1975 il Consiglio Regione ha nominato una commissione speciale per riscrivere lo statuto di Autonomia. Non è stato riscritto. E’ stato solo delegittimato lo statuto esistente non è stato elaborato e adottato il nuovo. Siamo a questo punto.
Una visione sovranista, indipendentista, autonomista, oggi non può sostanziarsi di passato.
Ne si può lontanamente pensare che non si debba prendere atto di quanto di nuovo è sopravvenuto.
Esiste l’Unione Europea che decide sulla gran parte dei nostri interessi. Gli stati nazione di stampo ottocentesco sono finiti e le ultime feroci resistenze messe in campo per tenerli in vita in quella forma stanno solo facendo danno all’idea di Europa e ai cittadini tutti.
I migranti che cercano condizioni di vita migliore, mantenendo la propria identità culturale e religiosa, sono una realtà della quale bisogna prendere atto positivamente.
La finanziarizzazione dell’economia, e la impossibilità e incapacità degli stati nazione a contrastarla rende necessaria altre culture rispetto a quelle che abbiamo ereditato e conosciute.
Le relazioni con questa nuova realtà pretendono che la consapevolezza di essere popolo e nazione (nobile eredità sardista) si trasformi in scelte e atti che consentano a questo popolo e a questa nazione di essere riconosciuti dagli altri popoli e dalle altre nazioni.
E ben per questo serve oggi affermare che l’identità del popolo sardo, oltre le radici e la cultura ereditata è costituita e sostanziata per quello che siamo.
E per quanto, materialmente, è necessario fare va detto che la sovranità si conquista, per intanto, esercitandola.
Servono partiti di Sardegna, sovrani. Servono governi e parlamentari sardi non subalterni a chicchessia.
Serve uno statuto di sovranità, costituzionalmente riconosciuto in Europa e in Italia.
Serve una costituzione Europea per l’esercizio della sovranità del popolo europeo, federalista.
Serve una costituzione italiana federalista.
Serve che la costituzione federalista europea e italiana prevedano il principio di allargamento interno che possa consentire la politica pacifica della autodeterminazione.
E serve dire con chiarezza che la Sardegna ha come orizzonte politico e istituzionale permanente l’Europa.
Serve anche che nella congiuntura non breve della battaglia per la sovranità i ceti dirigenti di questo popolo sardo sappiano coniugare la pratica dello statuto come fatto costituito e la innovazione di una consapevole fase costituente.
Democratica, partecipata, generosa.

domenica 29 aprile 2012

Il tesoro della Sardinya si chiama campagna

Parla il presidente del Fai (Fondo Ambiente) regionale Maria Grazia Piras 

 Caterina Pinna

unionesarda.it

Il tesoro dell'Isola
si chiama campagna

«Ritorno all'attività agricola contro la crisi» 

 

C'è un tesoro in Sardegna e si chiama campagna. Un azzardo in tempi così duri? Una formula poco praticabile in una regione dove la terra si sposa con abbandono? Tutt'altro. «Un ritorno all'attività agricola non è solo una moda - spiega Maria Grazia Piras, presidente regionale del Fai (Fondo Ambiente italiano) - ma un programma serio e necessario per dare una concreta risposta al bisogno di lavoro nella nostra isola e assolvere contemporaneamente alla funzione di presidio del nostro paesaggio. Il paesaggio non è solo valore astratto ma una risorsa preziosa tanto da spingere la comunità Europea a destinare cospicui fondi a questo obiettivo. Si spera che la proposta contenuta nella PAC 2014- 2020 che vincola il 30 per cento del pagamento unico aziendale al mantenimento di almeno il 7 per cento della superficie agricola ad aree naturali possa essere confermata. In Sardegna l'agricoltura deve essere riconsiderata attività primaria dalla quale partire per avviare la spinta al secondario e terziario e persino alla ricerca scientifica».

Il concetto “il futuro è il nostro passato” è più che mai vero? «Sì, oggi più di ieri il paesaggio è un bene vitale, fruibile, sul quale far rivivere la nostra storia ma anche la nostra economia. Non un paesaggio museo. Pensiamo al nostro patrimonio nuragico e pensiamo a una qualsiasi strada di campagna, magari dopo una pioggia. Oppure con le ombre di giugno tra mille sfumature di verde. In quel paesaggio all'improvviso spunta un nuraghe. Ecco, non pensiamo mai che il nuraghe è legato a quella campagna ed è lì perché è legato proprio a quel specifico paesaggio. Intendo dire che in ogni altro posto quel nuraghe non avrebbe senso. Perciò il luogo da tutelare non è più il bene archeologico circoscritto, ma tutto l'ambiente nel quale esso ha la sua ubicazione, la sua storia e il suo significato. Quanti percorsi potremmo disegnare nella nostra isola coniugando archeologia e paesaggio? Quello che serve è tracciare un forte legame tra mondo culturale ed economico con la nascita di piccole iniziative».

Il 24 e il 25 marzo il Fondo ha rinnovato l'iniziativa della Giornata FAI di Primavera e Cagliari, dove si poteva visitare la necropoli punica, ha registrato il record di visitatori. «L'attenzione su Tuvixeddu è in parte figlia del lungo dibattito, polemiche e contrasti che in questi anni si è sviluppato intorno all'aerea e al suo destino. Questo ha indubbiamente creato una mobilitazione, non solo a Cagliari ma in tutta la Sardegna. Oltre questa spinta credo davvero si stia facendo strada, soprattutto nei giovani, una coscienza nuova, una maggiore consapevolezza del valore di un bene archeologico e ambientale».

Da un record positivo a uno negativo. Negli ultimi 60 anni in Sardegna c'è stato un incremento del suolo urbanizzato del 1154 per cento. È come se avessimo mangiato tre ettari di terra al giorno. Sassari, per esempio, ha visto ridursi la corona di oliveti spagnoli che la circondava. «Purtroppo è così. La Sardegna è la regione che ha consumato più suolo con una variazione pro capite 10 volte più alta rispetto agli anni Cinquanta. Questo dato in Sardegna è naturalmente molto legato alle attività turistiche. Il fenomeno delle seconde case che ha dominato sino a oggi sta cambiando e richiede un nuovo modello anche per chi crede come me nella forza propulsiva dell'attività turistica ma, ormai, soprattutto i giovani vogliono anche altro. Solo un ripensamento complessivo può impedire che nel frattempo continui a crescere la percentuale di terra non coltivata e la moria di aziende agricole . Qualcosa inizia a muoversi e i dipartimenti di agraria a Sassari guardano con interesse un paese come Ittiri che si è mobilitato per il recupero e la fruizione dei suoi uliveti».

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha confidato a Giulia Maria Crespi, infaticabile anima del Fai, che la Sardegna è un giacimento culturale di valore universale. Ma perché lo sanno gli altri e noi no? Perché nel resto del mondo sanno calamitare turisti intorno a beni infinitamente meno belli e suggestivi dei nostri. L'ultimo esempio viene dal bacino della Ruhr, diventato capitale della Cultura europea? «Abbiamo avuto nel passato poca consapevolezza dell'importanza della nostra storia e della nostra cultura. Questo per fortuna sta cambiando. I giganti di Monte Prama sono la scoperta che più ci ha costretto a riflettere sulla nostra storia e che ci dice che i Sardi hanno avuto momenti di grande splendore non solo culturale ma anche economico. Una grande lezione di autostima. Sempre per rimanere su ciò che abbiamo di bello dobbiamo ricordarci dei nostri parchi che rappresentano un altro aspetto della tutela paesaggistica. Purtroppo se ne parla sempre meno. La maggior parte dei parchi non sono decollati, non sono appieno godibili dai visitatori. Il salto culturale da fare è trovare il giusto punto di equilibrio tra uso della risorsa e della sua tutela senza cadere nell'eccesso opposto, cioè imbalsamarla. È il rischio che corrono anche alcuni centri storici dove tutto è perfetto e dove però non c'è più vita».

Buoni segnali per il futuro? «Fortunatamente sì, ci sono stati soprattutto con il piano paesaggistico. Perciò bisogna evitare che venga stravolto mantenendolo ancorato al codice dei beni culturali. Non bisogna abbassare la guardia. Questo è possibile perché si fa strada una nuova coscienza che è la garanzia affinché alcuni errori commessi nel passato non possano più ripetersi».

sabato 28 aprile 2012

Sos Sardos e sa Die in su 2012


Antoni Murone


Ite cheret nàrrere ammentare sa Die a meda annos dae tando, cando sos Sardos aiant chircadu de si ribellare a sos dominadores colonialistas? A tempos de oe, cando s'Itàlia paret chi nos chèrzat iscatzare a foras dae sa Repùblica, traighende sos patos frimmados subra su dinari e sas tassas, cantu nos semus abizzende chi s'istòria est movinde finas issa paris cun nois, in fatu nostru?
Sa zente est comintzende a cumprèndere chi s'Itàlia e sas àteras Natziones si sunt morende non tantu e non solu pro sa chistione de su dinari e de su traballu chi mancat, ma fintzas pro ite mancat un'ispinta a s'azzudu comune.


A die de oe, cando s'Itàlia e sos printzipales de ogni zenia paret nos chèrzant leare su diritu a colare a fora de s'Isula paghende su chi est giustu pro su biàzzu, serrant sas fàbricas e nos lassant s'arga in terra nostra, est arrivende forzis s'ora de lis torrare una risposta forte.
Sas Dies de sa Sardigna sunt cussas chi sunt intrende. Si su pòpulu sardu cumprendet chi solu sende unidu podet bìnchere sa partida, potet arrivare s'ora de estirpare sos abusos e pònnere a fora sos malos usos.

mercoledì 25 aprile 2012

Base Usa, Regione beffata: a quasi vent'anni dalla chiusura della base Usa, il Ministero della Difesa (Aeronautica militare) è fuori dai giochi.

Grazie ad un accordo bluff, la Difesa ha scaricato tutto su Cagliari

Base Usa, Regione beffata

Lo Stato non è più responsabile delle bonifiche



www.unionesarda.it Andrea Busia
TEMPIO Missione compiuta: adesso si può dire con assoluta certezza che i grattacapi e i problemi della ex base Usa sul Limbara, sono tutti sul groppone della Regione. Lo Stato (con grande abilità, bisogna dirlo) è riuscito a scaricare la patata bollente e lo ha fatto senza garantire un centesimo di euro per la riqualificazione della stazione radar della Us Air Force. Le carte parlano chiaro: nel 2008 (un altro regalo del G8) i quattro ettari della base dismessa sono stati incamerati dalla Regione, l'area faceva parte del patrimonio del Demanio. Formalmente si tratta di un passaggio di consegne provvisorio. Alla luce di quello che è successo sino a oggi, si può dire invece che lo scaricabarile consegna definitivamente all'amministrazione regionale un sito da bonificare.

LA BEFFA I costi della riqualificazione sono lievitati (si parla di almeno due milioni di euro) e una lunga serie di ostacoli burocratici, rende l'intervento estremamente complicato. Insomma, a quasi vent'anni dalla chiusura della base Usa, il Ministero della Difesa (Aeronautica militare) è fuori dai giochi e altri (Regione e Comune di Tempio) devono trovare la soluzione di un problema che nasce dall'attuazione di trattati internazionali spesso top secret. Il quadro è questo e non ci sono buone notizie.

SCARICABARILE Nel 2010 il Consiglio comunale di Tempio aveva respinto all'unanimità la proposta (una vera furbata della Regione) del passaggio della ex base al patrimonio municipale. Le parole di Gianni Monteduro (allora consigliere di minoranza) chiariscono le reali intenzioni del fallito blitz: «Il debito di guerra imposto alla Sardegna e ai tempiesi, adesso diventa un onere per noi che dovremmo accollarci la pulizia di spazzatura militare e tecnologica». Il Comune disse no e il materiale (sei parabole, due cisterne, prefabbricati in amianto, una centrale elettrica, la sala delle teletrasmissioni e rifiuti speciali come alluminio, piombo, acidi e lana di vetro) è rimasto al suo posto.

L'INCHIESTA La Procura di Tempio, dopo una denuncia presentata dagli indipendendisti di Irs, aprì un'inchiesta che venna affidata al personale della sezione di polizia giudiziaria del Corpo Forestale. Un fascicolo dalla vita breve, perché ai magistrati venne spiegato che la situazione di abbandono (con gravi rischi di inquinamento) stava per essere risolta grazie ad un accordo Stato-Regione. Anche i pm sono stati beffati: dopo l'archiviazione delle indagini, sul Limbara non è successo niente. Conclude il capogruppo di minoranza in Consiglio comunale, Francesco Quargenti: «Una novità c'è, la Giunta Frediani rischia di perdere gli unici finanziamenti stanziati, quelli per la realizzazione di un piccolo acquedotto nella zona della base».

martedì 24 aprile 2012

L'arcivescovo Arrigo Miglio: «Ho tanto da imparare»

Giulio Zasso 

unionesarda.it 

Cagliari l'arcivescovo Arrigo Miglio è arrivato in città



Si affaccia all'uscita secondaria degli arrivi a Elmas. Un cenno di saluto e poi il passo deciso verso un vecchio amico. Il sorriso è caldo, come l'abbraccio. Arrigo Miglio non nasconde l'emozione quando incontra don Luigi De Magistris, l'arcivescovo cagliaritano ottantaseienne (che ha chiuso la carriera da pro-penitenziere maggiore), arrivato sino all'aeroporto per salutarlo. «È una grande emozione per me essere qui, in questa terra ricca», sussurra dietro un sorriso il nuovo capo della chiesa cagliaritana (che controlla anche le diocesi di Iglesias, Nuoro e Lanusei).
 
C'è un comitato d'accoglienza ristretto a ricevere l'arcivescovo piemontese, tra cui il vicario Giovanni Ligas (di Pio X), il cerimoniere Alberto Pala (parroco della Cattedrale), Albino Lilliu, in rappresentanza dell'Ufficio liturgico, e la laica Lucia Baire, direttrice del museo diocesano. Con loro la rappresentanza arrivata da Ivrea: l'arcipreste Luca Meinardi e Davide Smiderle, capo della pastorale giovanile. 
Miglio saluta tutti: «Sono qua per imparare, sono convinto che non arrivi mai il tempo per fermarsi». È un ritorno nell'Isola dopo gli anni da vescovo a Iglesias. Ha guidato la diocesi sulcitana dal 1992 al 1999. «Ma è stato tempo fa», si schermisce, «non posso affermare di conoscere così bene la Sardegna». I pensieri girano a mille, perché in questi giorni di cambiamenti «c'è anche il distacco» da Ivrea, dove è stato vescovo per tredici anni. Praticamente a casa sua: è nato pochi chilometri più in là, a San Giorgio Canavese.
 
Il passaggio all'aeroporto è rapido, poi Arrigo Miglio s'infila nella Polo Volkswagen di padre Alberto Pala e corre veloce verso la sua prima base cagliaritana. Notte al santuario di Bonaria per un breve ritiro spirituale in vista dell'uscita ufficiale di questa sera. L'arcivescovo incontrerà alle 20 i giovani nella cappella del seminario arcivescovile di via Cadello. Proprio accanto a Monte Claro il prelato potrebbe scegliere la sua residenza definitiva, anche se c'è l'alternativa del seminario regionale, che è a pochissima distanza. Il suo predecessore Giuseppe Mani aveva scelto, invece, di vivere sul colle di via dei Falconi, dalle suore Figlie della carità.
 
Domani l'arcivescovo Miglio farà la sua prima uscita ufficiale in città. Alle 16 presiederà in Cattedrale i vespri solenni e subito dopo - alle 16 e 30 - guiderà il pellegrinaggio a piedi verso Bonaria. Alle 17 e 30, proprio davanti alla basilica, ci sarà il benvenuto del sindaco Massimo Zedda, che lo saluterà a nome della città. Alle 18 comincerà la messa solenne nel santuario dei frati mercedari.

domenica 22 aprile 2012

Indipendenti? Ora si può.. EJA!



de Fabio manca
«Viviamo una crisi pazzesca in tutti i settori della società: per i sardi è un'occasione storica, la più proficua del dopoguerra»
 
Giacomo Sanna



Che cos'è l'indipendentismo. E soprattutto, come si concretizza?
Giacomo Sanna fa un sospiro, sorride sornione, guarda dritti negli occhi gli interlocutori e risponde non da filosofo utopista ma, da uomo pragmatico, con gli esempi. «Spiegarlo alla gente è difficile, bisogna evitare astrattismi, parlare la lingua giusta con chi ha perso il lavoro, con chi dispera di trovarlo, con chi ha perso la dignità».


Dunque?«Indipendentismo, cito tre casi, è affrontare la questione dell'energia, del costo del denaro e dei trasporti tenendo conto che siamo un'isola e non Milano, che i nostri costi sono nettamente superiori».
Ma per questo basta l'autonomia?«Evidentemente no. L'autonomia ha i suoi limiti ed i Governi sono sempre più arroganti, egoisti. Non distinguono, fanno due conti ed emettono provvedimenti che penalizzano i più deboli».


Il sistema fiscale, ad esempio.«Esatto. Il nostro è uguale per ricchi e poveri. Inaccettabile. Problemi diversi non si possono affrontare con gli stessi strumenti».
Lei che cosa farebbe?«Ad esempio voglio poter decidere che le nostre imprese o quelle che investono e assumono in Sardegna paghino un'aliquota Irpef all'otto o al dieci per cento».


La crisi economica, la crescita dell'avversione ai partiti come simbolo della degenerazione morale ed economica rendono la gente più sensibile all'indipendentismo?«Abbiamo, lo dico paradossalmente, la fortuna di vivere una crisi pazzesca in tutti i settori della società e abbiamo un problema morale gigantesco. Questo rende la gente disperata, la fa riflettere. Se hai la pancia piena, i vantaggi dell'indipendenza non ti toccano. Se sei disperato sì. È un'occasione storica, la migliore del dopoguerra».


Perché?«Sa qual è la differenza rispetto ad allora? Che la gente prima della guerra non aveva niente o aveva poco e doveva costruire tutto. Era tutto difficile ma c'erano stimoli, persino entusiasmo. Ora è diverso: gli italiani stanno passando da un consumismo sfrenato al precipizio. Tra non avere e dover conquistare ed avere molto e perdere tutto c'è un abisso. Per questo dico che è un'occasione storica».


Non a caso la stanno cavalcando molti partiti italiani di maggioranza e opposizione. Che recentemente in Consiglio regionale hanno approvato il vostro ordine del giorno che propone di verificare «il fondamento della permanenza della Sardegna nella Repubblica italiana«È una ulteriore dimostrazione che il sentimento cresce assieme al risentimento verso un Governo che ci schiaffeggia ogni giorno, incapace perfino di rispettare gli impegni che assume e le leggi che emana. Ecco perché molti stanno entrando nel recinto dell'indipendentismo».


Oggi qualcuno parla di secessione al contrario, cioè è lo Stato che ci allontana, come una zavorra.«No gli do torto. Però è un paradosso».
Un popolo litigioso come il nostro è capace di autodeterminarsi? Continuiamo ad essere mal unidos e i primi a dividersi sono i promotori dell'indipendenza.«Ha ragione. Nella galassia c'è un difetto di democrazia, c'è chi fatica ad accettare regole condivise e fatica a stare assieme. L'indipendenza non può diventare una dittatura».


Anche il suo partito si è diviso mille volte.«Vero, ma ha avuto scissioni momentanee e chi si è allontanato ha avuto vita politicamente breve».
Come il suo amico Efisio Serrenti?«Eravamo amici, lo invitai a non strappare, ma lui decise di sostenere la Giunta Floris e ci dividemmo. Soffrii molto per la sua scelta. Ma alla lunga non pagò. I Sardistas si sono estinti dopo pochi anni».


Si sono scisse anche Sardigna Natzione e Irs, è nata Progres.«In un movimento le discussioni sono fisiologiche come le battaglie, anche dure. Bisogna credere nella propria missione ed essere capaci di superare le difficoltà. Con Bustianu e Gavino ho fatto molte battaglie, sono miei amici, non si può non andare d'accordo con loro. Abbiamo fatto Sardegna libera, una creatura che ho voluto, ma la gente non era matura. Arriverà il giorno in cui lo sarà».


C'è la possibilità che voi e i Rossomori vi riuniate?«Le racconto un aneddoto. Molti anni fa, a Sassari, ero assessore provinciale e facevo vita di sezione. Ci furono divergenze nel partito ed io per nove mesi non presi la tessera, ma rimasi dentro. Né io né nessuno dei miei compagni di partito pensammo di andar via anche se c'erano difficoltà. Non si va via dalla squadra se si perde la partita. Ecco perché non voglio riportare dentro chi ha creato divisioni e lacerazioni».


Anche di recente il tavolo della convergenza indipendentista ha lavorato a lungo per costruire un documento sui valori condivisi poi si è spaccato.«Ho visto».


Una delle cause sembra essere stata il referendum sull'indipendenza promosso da Malu Entu: secondo alcuni suoi commensali ha fatto una imperdonabile fuga in avanti solitaria.«Concordo. Doddore lo conosco dal congresso dell'81, è simpatico ed ha carisma. Ma deve capire che non ci si può imbarcare in una battaglia come questa anticipando i tempi, per fare il primo della classe. O magari per recuperare finanziamenti».


Ma ha appena detto che i tempi sono maturi.«Per battersi per l'indipendenza sì, ma proprio per questo occorre ragionare, pianificare, convergere, non fare fughe in avanti. Bisogna trovare il modo giusto per fare le cose».


E qual è il modo giusto?«Faccio l'esempio del referendum sulle scorie. Bustianu lo promosse, noi gli demmo una mano. Fummo aiutati da tutti i media, che garantirono informazione dettagliata e costante e, dunque, un traino straordinario, l'iniziativa fu sposata dal presidente della Regione Cappellacci che si schierò apertamente con noi e ci fu un colpo di fortuna».
L'incidente in Giappone.«Esatto. Tutto questo ci consentì di conquistare una vittoria straordinaria contro il Governo».


Qual è la controindicazione dell'indipendentismo?«Non ce ne sono. Se invece mi chiede qual è il limite attuale ribadisco: la democrazia. C'è ancora qualcuno che la mette in discussione, che non la accetta che non la applica, che ha difficoltà a stare assieme».


Potreste imparare dai baschi o dai catalani. O anche da Malta e Cipro.«Hanno concretizzato ciò che noi riusciamo solo a postulare, hanno un'altra statura».



Reg. Trib. di Cagliari - Decreto n. 12 del 20-11-1948 - P.I. 02544190925 - Copyright © L'Unione Sarda S.P.a. Tutti i diritti riservati

► Potrebbe interessare anche: